La scuola e la classe (lotta di..) di Franco De Anna, Pavone Risorse 29.8.2013 Letture estive (non di oggetto scuola..) mi fanno incrociare con alcuni (antichi, per la verità) scritti di Dahrendorf, e tra questi impatto con alcune affermazioni che ripropongo. "L’attribuzione delle posizioni sociali è divenuta oggi sempre più una prerogativa del sistema di istruzione"; e ancora, circa il compiuto avvenire di una società che ha superato la lotta di classe, e l’affermazione della funzione del merito nella selezione sociale, aggiunge "La posizione sociale di un individuo [viene ormai a dipendere] dalle mete scolastiche che egli è riuscito a raggiungere".
Il mio rispetto per il grande pensatore liberale e il teorico del
conflitto sociale nella "società postcapitalista" è ovviamente
massimo. Entrambi sembrano trascurare che i caratteri generali dello sviluppo postfordista e della integrazione sempre più spinta tra scienza, tecnologia, produzione e organizzazione dell’economia, richiedono bensì la disponibilità di "talenti umani" di livello sempre più elevato; ma ne praticano una "valorizzazione" sempre più selettiva, che poco ha a che fare con sistemi di istruzione di massa (almeno per come li abbiamo promossi e conosciuti nella seconda metà del ‘900).
L’analisi dei caratteri di tale sviluppo e del nesso specifico tra
essi e i caratteri dell’istruzione ci porterebbe lontani. Mi basta
qui una battuta rivolta a chi usa disinvoltamente la metafora
dell’ascensore sociale. La forza mediatica della metafora sembra
singolarmente lasciare nell’ombra la considerazione che l’ascensore
è, di norma, un contenitore di assai esigua capacità, e che, per sua
"funzione" non può che muoversi in entrambi i sensi. Salire ma anche
scendere.
Certo l’analisi di Bottani è (da par suo) articolata e dettagliata,
e mostra tutte le differenziazioni tra i diversi sistemi nazionali
di istruzione (e i problemi specifici del nostro). Ma lo sfondo
complessivo dell’analisi è quello di un interrogativo generale sulla
funzione sociale dei sistemi di istruzione in questa fase storica,
ed il titolo scelto riassume assai efficacemente la consapevolezza
di mutamenti radicali che mandano "fuori bersaglio" le più
consolidate categorizzazioni. D’altro canto non occorre grande sforzo analitico per considerare che a fronte delle radicali trasformazioni che hanno caratterizzato la lunga transizione di secolo sotto il profilo della organizzazione della produzione, dei processi di trasformazione della natura, dello sviluppo delle tecnologie (non solo quelle della comunicazione), della mondializzazione del mercato; e dei riflessi altrettanto radicali che tali trasformazioni hanno indotto negli assetti e nelle stratificazioni sociali, non si possa riproporre come immutata/immutabile la funzione sociale dei sistemi di istruzione nazionale. A meno di attestarsi su un (doveroso) richiamo al "valore universale" del sapere per l’uomo (ma ci aveva pensato già Aristotele). Senza chiedersi (questa dovrebbe essere la "domanda politica") come, nella determinazione storica della determinata organizzazione sociale, tale valore universale si interpreti e si realizzi (o si tenti di realizzare). Ma così facendo la "filosofia" tradisce se stessa diventando semplice "consolazione". O al peggio irrimediabile frustrazione di chi vede la realtà negare ostinatamente le proprie invocazioni e i propri modelli.
Propongo ai lettori un semplice esercizio mentale. Prendiamo come
"variabili" alcune categorie come "competenze professionali",
"livelli di istruzione", "autonomia e responsabilità" esercitate sul
lavoro, "vincoli operativi-organizzativi" cui è sottoposto il lavoro
stesso, e infine, ovviamente il "reddito" e combiniamole, nelle
numerose combinazioni oggi possibili, per tracciare una sia pure
schematica stratificazione sociale. (L.Gallino, con modalità
analoghe e certamente più raffinate, riesce ad elencarne una
dozzina). Qui solo alcune esemplificazioni.
Una combinazione positiva dell’insieme di variabili proposte si
ottiene in sostanza per le sole posizioni dirigenziali (nell’impresa
e nell’amministrazione pubblica). Ma occorrerebbe aggiungere che in
tali posizioni i vincoli di erogazione del lavoro si attenuano
formalmente ma diventano totalizzanti circa la disponibilità
individuale: un vero dirigente sa di "non avere orari". Inutile
aggiungere poi che tale condizione di combinazione positiva delle
variabili considerate riguarda solo qualche punto in percentuale del
complesso dell’occupazione.
Potremmo proseguire: nella "stia" di un call center, vincolati ad un
lavoro di disponibilità totale, di forte relazionalità, sia a pure a
distanza, possiamo trovare insieme giovani laureati, esodati di
media età, immigrati dotati di plurilinguismo, e reddito
basso-bassissimo. E nel variegato mondo del lavoro interinale e
precario (dalle pulizie al terziario postmoderno, alla moderna
"logistica") troviamo spesso una mescolanza indifferenziata tra
immigrazione "sottoproletaria" e giovani altamente scolarizzati in
permanente ricerca di lavoro.
Per il nostro Paese vi sarebbe semmai da aggiungere che tale
connessione funzionale spesso si ritrova confermata solamente a
livello di alcune "corporazioni" non soggette alla concorrenzialità
del mercato (dagli ordini professionali ad alcuni settori della
Pubblica Amministrazione), la cui collocazione sociale protetta ha
costi economici e sociali che gravano sull’intera economia
nazionale. (Si vedano, come "sintomo", le mistificazioni che
immediatamente vengono evocate quando si affronta il problema della
abolizione del "valore legale" del titolo di studio).
Dunque "plasma" i "valori" che presiedono alla "economia della
propria vita" dei singoli (consumi, risparmio, famiglia, autonomia
personale….) e per tale via anche i caratteri dell’offerta di lavoro
e influenza dunque la stessa dinamica del mercato del lavoro. Ma tale processo di decostruzione semantica ha con tutta evidenza una essenziale valenza "culturale". Si esprime oggettivamente nella dinamica materiale dell’economia, ma richiede elaborazione culturale. Si genera sui "fatti" ma ha bisogno di parole, di dizionari, di interpretazioni.
Ad esse si affida il compito del consenso, ma anche la
consapevolezza della critica, fino alla ribellione. E forse la
decostruzione semantica del "lavoro" è una delle ragioni del venire
meno anche di quest’ultima e del prevalere delle derive
personalistiche della politica.
"…E’ perciò impossibile pensare di risolvere la questione
[l’occupazione giovanile, NdR] agendo esclusivamente dal lato della
domanda [abbassare il costo del lavoro, delle voci previdenziali
ecc… NdR]. C’è una azione dal lato dell’offerta ….è una azione che
passa attraverso una generalizzata capacità di esercitare il
controllo… dell’offerta di lavoro nel nostro Paese…. Questa capacità
di controllo sull’offerta trova nella riforma della scuola e
dell’università i punti forti… per saldare insieme l’azione che il
Sindacato compie sul rapporto di lavoro… nei luoghi di lavoro…
l’azione che può compiere sul mercato del lavoro nella
contrattazione dell’offerta di lavoro, a quei livelli istituzionali
(scuola e Università) che concorrono alla dislocazione dell’offerta
sul mercato….."
La lunghissima e critica "chiusura del secolo" è oggetto di corrente
riflessione politica e non la richiamo qui. Non si potevano
immaginare allora i connotati della crisi che a diverse ondate ha
interessato gli ultimi vent’anni. Ma certamente essa si sovrappone
complicandole e stratificandole ulteriormente alle contraddizioni
maturate storicamente nel nostro Paese; e il funzionamento concreto
del sistema di istruzione è tra quelle più rilevanti. Come tali, cioè come forme organizzate di erogazione di servizi sono da analizzare e gestire (anche) con le regole dell’economia, cioè della pertinente corrispondenza tra fini e mezzi, anche tenendo conto del fatto che questi ultimi provengono dalla fiscalità generale e dunque la produttività del loro impiego ha un inevitabile profilo etico politico. (Dimensione misconosciuta nella politica di spesa pubblica nazionale, almeno fino alla "stretta" attuale). Sotto tale profilo il rapporto tra sviluppo dei sistemi di istruzione e sviluppo economico non è sempre stato il medesimo (non è questione "filosofica" appunto). Nel passaggio tra la prima e la seconda rivoluzione industriale tale rapporto ha subito modificazioni radicali e nuovi apporti, rispetto alle "funzioni sociali" originariamente assegnate.
Dalla primitiva "riproduzione delle elite" (l’istruzione superiore)
a basso significato economico (e indipendente dal ciclo), ai
processi di socializzazione e nazionalizzazione delle masse (in
parte indispensabili sia per il governo della produzione industriale
di massa sia per la produzione del consenso), alla preparazione dei
quadri intermedi, dei tecnici e degli ingegneri caratteristica della
fase della seconda industrializzazione fordista (e dunque con un
legame organico e positivo tra istruzione di massa e sviluppo
economico).
In quanto istituzioni elaborano "significati", codici
interpretativi, riproducono valori, scale di gerarchie valoriali.
Allora si disponeva di due modelli analitici: in quello americano
l’istruzione superiore di massa letta come "serbatoio" di
contenimento e governo della disoccupazione giovanile (famoso un
saggio dei coniugi Rowentree sulle università americane). In quello
del socialismo reale (absit iniuria verbis) il modello di
programmazione rigida di indirizzi e sbocchi professionali, ma a
partire da una scolarizzazione diffusa. E ora? E noi? Se ne può e deve discutere e non è qui modo e spazio. Ma certo potrebbe costituire una buona guida il richiamo costituzionale e l’articolazione interna dell’art. 34 che descrive il diritto all’istruzione, con una parte "incondizionata" (l’istruzione inferiore gratuita ed obbligatoria per almeno 8 anni) ed una parte "condizionata" (l’istruzione superiore aperta a tutti ma con costi sociali distribuiti e selezionati… "i meritevoli ancorché privi di mezzi…ecc…"). Fatte salve le quantificazioni specifiche (ormai gli otto anni son dieci) legate anche al comportamento sociale, assai più evoluto di quello che osservavano i padri costituenti (il passaggio all’istruzione superiore è agito per esempio come "fisiologico", salvo alimentare la successiva dispersione), potrei riassumere in tre punti 1. massimo consolidamento dell’obbligo scolastico (si: scolastico!) come plafond di istruzione di cittadinanza dunque unitario e declinante "uguaglianza" dei cittadini. Qui si concentri "l’ordinamento", non disperdendo l’obbligo su diversi "ordini" di scuola e tanto meno in ibridi di legittimazione sociale più che problematica. 2. il post obbligo e l’istruzione superiore all’insegna del paradigma della flessibilità. Personalmente ribadisco (provocatoriamente) la necessità di fuoriuscita dal paradigma stesso dell’ordinamento. In particolare sviluppo integrato di formazione professionale, formazione degli adulti, istruzione permanente, alternanza scuola lavoro, con effetti sia sulla organizzazione degli studi sia sugli istituti del rapporto di lavoro 3. Intervento "radicale" sulla dimensione organizzativa del sistema (dunque sui suoi parametri e involucri interni spazio temporali, sulla classificazione ed erogazione del lavoro di insegnamento, sulle durate e scansioni, sul formalismo amministrativo). Un intervento che appare assai più decisivo che non quello teso a riformalizzare una enciclopedia dei contenuti (indicazioni, programmi..): su questo piano ci si misuri invece con la portata "rivoluzionaria" delle tecnologie della comunicazione. Vorrei solamente aggiungere che nella produzione di "significazione" (compito fondamentale del sistema) gli assetti organizzativi hanno spesso portata più efficace delle stesse "enciclopedie" disciplinari, esattamente come l’ambiente di apprendimento a volte conta più del curricolo. La storia della realizzazione dei sistemi di istruzione di massa ha visto utilizzare ampiamente criteri organizzativi propri del fordismo (verticalizzazione, formalizzazione e standard, ripetitività delle scansioni). Dobbiamo essere capaci di adeguare i modelli organizzativi introducendo dosi significative di "toyotismo" (orizzontalizzazione, autonomizzazione dei gruppi professionali, riunificazione delle mansioni). Bisogna essere capaci e creativi per passare da una "economia di scala" ad una "economia di scopo" nella riorganizzazione del sistema. So che i più rivoluzionari diventano spesso a fronte di ciò conservatori. Mi si dirà: ma così deve cambiare tutto!!! E io che ho la cattedra di latino?!! Beh… "è la lotta di classe bellezza…" |