Ugolini: tre riforme a costo zero intervista a Elena Ugolini il Sussidiario 13.9.2012
Anche quest’anno sono
arrivati i dati di Education at a glance, il rapporto Ocse
sull’istruzione che misura la stato di salute della nostra scuola. E
i voti dell’Italia, come stesso accade, non sono lusinghieri. Non
mancano nemmeno quelli positivi, come l’aumento dei laureati e la
sostanziale condizione di tenuta occupazionale dei nostri diplomati.
Ma i numeri dell’abbandono relativi ai giovani inattivi (i Neet)
sono preoccupanti e sollecitano politiche urgenti per fronteggiare
il declino. «Occorre rafforzare le competenze di base nel primo
ciclo. L’altra direzione in cui ci stiamo muovendo è quella di
potenziare l’istruzione e la formazione tecnica e professionale in
tutte le sue forme, collegandole alle filiere produttive». Elena
Ugolini, sottosegretario all’Istruzione, commenta i dati e spiega
l’azione del governo.
I dati più preoccupanti
sono due. Uno è quello dei Neet, i ragazzi tra i 15 e i 29 anni che
né lavorano né studiano e nemmeno sono in cerca di un’occupazione:
nel 2005 erano il 21% e ora si registra un peggioramento che si
attesta al 23%. Il secondo è quello sulla difficoltà che ha la
scuola italiana ad agire come ascensore sociale: c’è una
correlazione forte tra il titolo di studio dei genitori e quello
conseguito dai ragazzi.
In Italia, i giovani
provenienti da famiglie con bassi livelli di istruzione hanno minori
opportunità di raggiungere un livello più elevato di istruzione
rispetto ai loro genitori. Oltre il 40% di tali giovani non completa
gli studi secondari superiori e meno del 20% raggiunge il livello
universitario (in Italia il 44% dei giovani tra 25-34 anni con
genitori che non hanno completato la scuola secondaria superiore
sono fermi anche loro ad un basso livello di istruzione, contro il
32% della media Ocse). C’è una correlazione fortissima tra la
provenienza socio culturale della famiglia e il livello di studi
raggiunto dai ragazzi. Fino a pochi decenni fa i figli riuscivano a
conseguire un titolo migliore di quello dei genitori, ed avevano la
possibilità di una occupazione migliore. La scuola italiana deve
tornare ad a essere il luogo dove è possibile mettere a frutto i
talenti e le capacità di ognuno indipendentemente dal background
socio culturale delle famiglie di provenienza.
Ci sono almeno due
aspetti positivi che vanno sottolineati. Il primo è l’aumento del
numero dei laureati: il rapporto Ocse rileva che la proporzione dei
giovani in Italia che accedono ai programmi universitari è aumentata
dal 39 al 49%, sicuramente un effetto dell’entrata in vigore della
riforma universitaria. Il secondo è la tenuta occupazionale dei
diplomati, che passa dal 72,3% al 72,6% nonostante la crisi.
Il dato dell’indagine
che parla del 23% dei ragazzi tra i 15 e i 29 anni che non studiano
e non lavorano è altissimo, anche se non tiene conto dei ragazzi che
frequentano i corsi di formazione triennali per il conseguimento di
una qualifica professionale. I giovani che frequentano questi corsi
tra i 15 e i 18 anni, sono passati da 93.338 nel 2005 al 142.140 nel
2009. Ciò dimostra che in questi anni la formazione professionale è
stata capace di intercettare tanti giovani tra i 15 e i 18 anni che
altrimenti avrebbero lasciato qualunque percorso formativo. Rimane
molto da fare. Il tasso di dispersione scolastica − in Italia è
ancora alto, si attesta al 18,8% e varia moltissimo da regione a
regione − raggiunge punte del 23% in Campania e del 26% in Sicilia.
Dobbiamo ripartire innanzitutto da qui, migliorando la qualità della
proposta educativa e formativa.
Il governo ha appena
approvato un bando per sbloccare i fondi Ue (200 milioni di euro)
destinati alle quattro regioni “Obiettivo convergenza”: Sicilia,
Campagna, Calabria e Puglia, per promuovere opere e reti di scuole
che possano arginare la dispersione scolastica e il fallimento
formativo precoce. Lo scopo è rafforzare le competenze di base nel
primo ciclo e realizzare percorsi capaci di motivare gli adolescenti
e sostenere gli insegnati e famiglie nel loro compito educativo.
L’altra direzione in cui ci stiamo muovendo è quella di potenziare
l’istruzione e la formazione tecnica e professionale in tutte le sue
forme, collegandole alle filiere produttive: dagli istituti tecnici
e professionali ai percorsi triennali, a modelli più flessibili come
le botteghe scuola utilizzando anche la forma dell’apprendistato in
diritto-dovere. Siamo convinti che solo aiutando ogni ragazzo a
trovare la propria strada sarà concretamente possibile combattere il
fenomeno dei Neet.
Il titolo di studio non
basta. Occorre agire in modo più incisivo sull’orientamento dei
ragazzi, potenziando la filiera scuola-università-lavoro, migliorare
la proposta formativa dell’università, e potenziare il livello di
formazione terziaria non universitaria sul modello tedesco. Mi
riferisco agli Its, le scuole speciali che prevedono metà del
curriculum svolto all’interno dell’ambiente di lavoro.
Tra il 2000 e il 2009,
la percentuale della spesa per il finanziamento per l’istruzione da
parte di privati, in particolar modo da parte delle famiglie, è
aumentato mediamente in tutti i paesi Ocse. In Italia si registra un
lieve aumento per l’istruzione primaria e secondaria (dal 2,2% al
3%), l’incremento più consistente è nell’istruzione universitaria
(dal 22.5% al 31.4%). Questo dato indica che la società civile
inizia ad investire sull’istruzione come bene prioritario.
Le donne sono spesso
più sistematiche e determinate negli studi degli uomini, e i dati
dell’indagine lo dimostrano. L’Italia può vantare una delle
percentuali più alte tra i Paesi Ocse per la proporzione di donne
che conseguono una qualificazione elevata di ricerca, come il
dottorato (52%, contro la media Ocse del 46%), per la proporzione
delle laureate in materie scientifiche (52%) e per la proporzione
dei laureati donna in ingegneria pari al 33%, che è tra le più alte
nei Paesi Ocse.
Non è un problema di
quantità, ma di qualità. Uno studente può rimanere a scuola molte
ore anche senza trarne il minimo beneficio. Non basta stare a
scuola, dietro un banco, per crescere ed imparare. Il problema è
l’efficacia della proposta educativa. Un obiettivo che non è
quantificabile solo nei risultati di apprendimento, ma nella
capacità della scuola di aiutare ogni ragazzo a sfruttare i propri
talenti. Per quanto riguarda gli insegnanti abbiamo tanta strada da
fare. Nel nostro Paese occorre cambiare mentalità, rivedere lo stato
giuridico dei docenti, per considerarli finalmente dei
professionisti e non dei burocrati. Ce ne sono tante. Ne dico solo tre: favorire l’alternanza scuola lavoro, l’orientamento e la formazione dei docenti attraverso la collaborazione della società civile, del mondo della ricerca e dell’università. Stiamo firmando un accordo con il Cnr, che metterà a disposizione i suoi ricercatori e i suoi laboratori per fare formazione ai docenti e potenziare l’offerta formativa anche agli studenti, per aiutarli a scegliere cosa fare. Dobbiamo regale alle nuove generazioni il patrimonio di esperienza e di conoscenza che ha fatto la grandezza del nostro paese. E questo può essere fatto senza il ricorso a nessuna legge. |