L’istruzione tecnica: di Maurizio Tiriticco ScuolaOggi 14.9.2012 E’ notoria la sufficienza con cui da sempre molti professionisti guardano all’istruzione tecnica, e soprattutto a quella professionale. In effetti, non accadrà mai che un loro figlio, dopo la scuola media, si iscriva a un istituto tecnico: sostengono che l’istruzione liceale è quella che conta, che apre le menti, che insegna a ragionare, e così via! Per non dire dell’azione salvifica esercitata dal latino… e dal greco! Ed è una musica che ormai suona, sempre la stessa, da circa 90 anni: la riforma Gentile è del 1923! E fu lo stesso Gentile a costruire la nostra scuola secondaria a canne d’organo nettamente separate e distinte e funzionali alla società di allora. La tradizione umanistico-letteraria era molto forte – siamo stati sempre malati di petrarchismo – e il fatto che in quel primo dopoguerra l’Italia riprendesse a percorrere la strada dell’industrializzazione in un contesto socioeconomico e politico assolutamente nuovo non mutava più di tanto atteggiamenti consolidati da tempo nei confronti della cultura, “che è una cosa”, e del mondo del lavoro, “che è un’altra cosa”. Secondo alcuni, è la “cultura” – e il lettore comprende perché adotto le virgolette – che apre alle professioni liberali, là dove il cervello deve essere flessibile e creativo; per i mestieri, invece, la “cultura”, non serve, è un inutile surplus!!! E va da sé che anche gli ingegneri, quelli che poi diedero vita alla seconda industrializzazione del periodo fascista – guarda caso – non erano formati da un istituto tecnico, ma dall’università! L’istruzione tecnica era quella dei quadri subalterni e/o intermedi: questo era il discorso gentiliano, che poi era il discorso degli stessi quadri dirigenti, che aderissero o meno al fascismo. Ciò che ho detto è più che noto, e in una società divisa in classi un sistema di istruzione ne riflette cultura, atteggiamenti, accessi al mondo del lavoro. Se poi pensiamo che nel ’38 la “cultura” non disse nulla o non osò dir nulla contro le leggi razziali – e c’era anche la dittatura, lo sappiamo – non sorprende più di tanto. Ciò che sorprende, invece, è il fatto che, nonostante i 90 anni e tutti i cambiamenti che sono intervenuti nella cultura, con o senza le virgolette, nel mondo del lavoro e delle professioni, il pregiudizio di sempre non sia cambiato di un ette. Ciò mi fa nutrire qualche dubbio sui nostri intellettuali: capaci di discutere di mille problemi, di essere anche liberali, financo di sinistra… però! Quando si tratta di scuola, il liceo è sempre il liceo! E dovrei dirlo anch’io, che so di greco e di latino! Eppure negli ultimi anni si sono succeduti avvenimenti epocali nel mondo della cultura – o, se si vuole, del sapere e dei saperi – in quello del lavoro e in quello dell’istruzione. La ricerca scientifica, l’automazione, l’informatica, le tecnologie hanno profondamente modificato il mondo del lavoro e i processi lavorativi sia sotto il profilo sociologico che sotto quello delle mansioni. Le catene di montaggio e il taylorismo (la “teoria della teppa”, a detta di molti) non esistono più ormai da tempo. E lo stesso Elton Mayo, quello delle Human Relations, ha fatto il suo tempo! Eppure! Occorre anche aggiungere che dagli anni Settanta sia l’istruzione tecnica che quella professionale hanno compiuto dei poderosi balzi in avanti in termini di curricoli, di titoli di studio, di accessi al mondo del lavoro. E’ noto a tutti che non ci sarebbe stato quello sviluppo che ci ha condotto ad essere tra i primi Paesi industrializzati, se l’istruzione tecnica e quella professionale non avessero dato il loro contributo, non solo in termini di cultura del lavoro, ma anche in termini di cultura in senso lato. L’operaio che non sa né leggere né scrivere, ma dare solo colpi di martello, non esiste più da decenni. E la nostra scuola, se fosse stata solo quella liceale, non so quale contributo avrebbe potuto dare al nostro balzo in avanti in termini di Paese altamente industrializzato. E’ importante sottolineare che il riordino recentemente attuato nell’intero sistema dell’istruzione secondaria – e che da quest’anno interessa tutte le classi terze – insiste soprattutto su un profondo, anche se complesso e difficile, rinnovamento dell’istruzione tecnica e professionale: un rinnovamento preceduto e sostenuto da un dibattito che ha interessato l’intero mondo della scuola e della produzione e che è testimoniato da documenti di alto valore culturale e scientifico. Ricordo le sollecitazioni che vengono da lontano, da un Europa che, con l’istituzione della Cee, non ha potuto fare a meno di guardare alla formazione professionale come al cuore pulsante dell’innovazione tecnologica nei processi lavorativi, da un Delors e da un Morin. Per quanto ci riguarda, si veda il documento De Toni (il presidente della commissione che ha atteso a una profonda analisi e al rinnovamento dell’istruzione tecnica e professionale) del marzo 2008. Dello stesso anno è l’“Action Plan della Confindustria per l'istruzione tecnica”. C’è anche un bel volume, “Umanesimo tecnologico e istruzione tecnica; scuola impresa, professionalità” di Claudio Gentili (Armando, 2007), che, pur non aggiornato sulle innovazioni del 2010, l’anno delle Linee guida pubblicate dal Miur, illustra chiaramente il senso e le prospettive del cambiamento in atto. E nel titolo c’è quell’accenno all’umanesimo, che poi costituisce il clou della ricerca di Martha Nussbaum (“Non per profitto, perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica”, il Mulino, 2011: un bel volume che ho recensito per Educationduepuntozero), la quale sottolinea che una vera e produttiva istruzione tecnica non può prescindere da un “bagno” culturale ampio, che abbia uno spessore, appunto, umanistico. In effetti l’umanesimo non è mai fine a se stesso. Non lo è mai stato l’Umanesimo del nostro Quattrocento, che ha visto il fiorire di una cultura ad ampio spettro, dalle arti alla letteratura, dalla filosofia alla ricerca scientifica: basti ricordare l’Umanesimo matematico di Piero della Francesca! Solo nel corso dei secoli successivi sono nate quelle “due culture” che ancora oggi persistono nella testa di molti nonostante lo sviluppo civile e culturale che dovrebbe essere tipico di un Paese a democrazia avanzata. E gli stessi richiami di Charles Snow (il suo “Le due culture” è della fine degli anni Cinquanta: ma c’è un’edizione del 2005 a cura di Marsilio) a porre fine a un dualismo che non ha alcuna giustificazione scientifica, sono ancora lettera morta. Insomma, nonostante il fatto che l’istruzione tecnica e quella professionale sono in grado oggi sia di permettere l’accesso al mondo del lavoro che di far proseguire gli studi e di dare agli studenti anche tutte quelle basi “umanistiche” – alla Nussbaum, per intenderci – necessarie al “saper ragionare”, persiste l’atteggiamento di grande sufficienza da parte di molti. Nonostante le innovazioni che stanno rivoluzionando i percorsi non liceali, pesa ancora il pregiudizio che vuole che gli alunni bravi vadano ai licei, i meno bravi ai tecnici, i cosiddetti “sfigati” ai professionali. Anche se poi accade che meno bravi e “sfigati” non si trovano affatto a loro agio a fronte di contenuti di studio che sono di grande spessore e che nulla hanno da invidiare ai percorsi liceali. Va anche sottolineato che l’innovazione nei percorsi dell’istruzione si va sempre più orientando – non senza difficoltà e non solo nel nostro Paese – verso la certificazione delle competenze. Si è raggiunta una competenza, quando un soggetto è in grado di utilizzare in modo personale, mirato, consapevole e responsabile le conoscenze e le abilità via via acquisite nel corso dei suoi studi e delle sue esperienze. E’ sufficiente una lettura comparata delle Indicazioni nazionali per i licei e delle Linee guida per gli istituti tecnici e quelli professionali per rilevare come finalità di questo tipo siano estremamente sfumate nelle prime rispetto alle seconde. In una stagione neoumanistica – mi piace chiamarla così – un percorso di istruzione non può rinunciare a finalità in cui la “parola” sia anche una “cosa” – l’Umanesimo matematico di Piero – e non solo un compiaciuto e vacuo flatus vocis! In effetti, mi sembra di notare, e con dispiacere, che le Indicazioni liceali e le Linee guida finiscano con l’accentuare quel divario che da sempre caratterizza i nostri studi secondari: da un lato “si parla e si pensa”; dall’altro, invece, “si fa”! Quando, invece, non dovrebbe essere così, anzi non è affatto così! Sembra che sia molto difficile sbarazzarsi del petrarchismo di sempre! Che sia una malattia tipica del nostro Paese? Da quanto detto, è facile evincere che nel prosieguo del tempo è l’istruzione tecnica e professionale quella che apre ai nostri giovani le porte del pensare e del fare, quella che non si limita a inseguire il mondo del lavoro, ma che addirittura lo precede, nella misura in cui è capace di intercettare e di promuovere i cambiamenti in atto nel mondo della ricerca e dell’evoluzione tecnologica. Insomma, se per decenni una certa ricerca sociologica ha insistito sul fatto che la scuola non è altro che uno strumento che vuole semplicemente riprodurre valori e ruoli sociali esistenti, oggi possiamo invece dire che la scuola – o meglio, un certo tipo di scuola – è in grado di sollecitare il cambiamento e di proporre finalità “altre”. Le Linee guida vanno in una direzione di questo tipo. Si tratta di un documento ancora aperto, perfettibile nella misura in cui riesce a promuovere nei curricoli quei cambiamenti che siano sempre in grado di intercettare la realtà di un mondo del lavoro in continua trasformazione. Senza per questo togliere nulla alla ricerca creativa. Siamo tutti convinti che un saper ragionare con libertà e obiettività è cruciale, oggi, per qualsiasi attività lavorativa. Lo spaccapietre di un tempo o il bambino nella miniera di zolfo non dovevano sapere né leggere né scrivere né far di conto, perché avrebbero preso coscienza del loro stato e acquisito gli strumenti per liberarsene! Oggi non è più così e l’operaio dell’Alcoa possiede tutti gli strumenti culturali non solo per prendere atto del suo stato, ma anche e soprattutto per proporre le soluzioni da adottare, anche se il contesto della globalizzazione presenta difficoltà anche al più esperto degli imprenditori e degli economisti. Le Linee guida recepiscono questa temperie, anche se, a volte, con difficoltà e con indicazioni organizzative e didattiche sulle quali occorre ulteriormente riflettere per cercare e ritrovare i necessari aggiustamenti al fine di rispondere al meglio sui legami che corrono tra ciò che bisogna apprendere, conoscere e saper fare per aiutare i giovani a inserirsi in un’attività lavorativa che giorno dopo giorno richiede ulteriori e più sofisticate competenze. Si tratta di una dinamica sempre aperta, che investe ambedue i percorsi dell’istruzione tecnica e di quella professionale. Ebbene, una dinamica di questo tipo non si avverte nelle Indicazioni nazionali per i licei. E la ragione è semplice: l’istruzione liceale non ha come fine immediato l’accesso a un difficile mondo del lavoro, ma l’accesso a studi ulteriori con cui i nostri giovani dovranno fare i conti! E orienta ancora a quelle cosiddette “professioni liberali” che oggi sono accessibili, e con maggiore successo e maggiore rapidità, anche e soprattutto mediante percorsi “altri”. E’ un’istruzione che non si fa carico del “dopo” e che lo scarica tutto sugli studenti… per cui vada avanti il migliore! Uno su mille ce la fa, dice Gianni Morandi! E gli altri 999? Fatti loro, in una società che privilegia il merito!
L’istruzione tecnica, quella professionale e oggi l’istruzione
tecnica superiore, concorrenziale ai percorsi universitari, si
ispirano a una logica diversa; sono in grado di offrire a tutti i
nostri giovani garanzie di lavoro e di studi ulteriori. Non è un
caso che per tutti è necessario oggi apprendere per tutta la vita,
perché non c’è attività lavorativa che giorno dopo giorno non
richieda cambiamenti e innovazioni. E non c’è attività lavorativa
che non richieda di… come si suol dire, pensare con le mani e fare
con il cervello! Non è affatto un adagio! E’ il mondo del lavoro di
oggi e di domani, in cui sapere e fare non sono più una dicotomia! E
non è sufficiente pensare di “aprire le menti” con percorsi astratti
da concrete competenze… che poi non sono affatto solo manuali! |