Scuola classista? I voti migliori
ai figli di dirigenti e imprenditori,
per gli altri rimane il “sufficiente”

di Rosaria Amato la Repubblica, 9.10.2012

“I risultati scolastici sono correlati all’estrazione sociale della famiglia di origine: quelli meno soddisfacenti si riscontrano più di frequente nelle famiglie in cui la persona di riferimento è operaio (il 41,3% ha conseguito il giudizio “sufficiente”) lavoratore in proprio o in cerca di occupazione (37% in entrambi i casi)”. Questa frase si trova a pag.15 dello studio dell’Istat “La scuola e le attività educative”, ed è passata piuttosto inosservata visto che su giornali, radio e televisioni si è parlato quasi esclusivamente della prima parte della ricerca, che esamina la frequenza dei bambini all’asilo nido, le motivazioni dei genitori per mandarvi o non mandarvi i figli, le attività post-scuola, per poi passare ai risultati conseguiti dagli studenti fino agli esami di terza media. E sui risultati, appunto, il ceto, la provenienza sociale, comunque la si voglia definire, pesa come un macigno. A un risultato analogo è pervenuta qualche anno fa una ricerca della Banca d’Italia, che però si concentrava soprattutto sullo svantaggio a carico degli studenti che vivono nel Mezzogiorno.

Dunque la scuola non serve a ridurre in misura apprezzabile lo svantaggio socio-culturale derivante dal fatto di nascere in una famiglia a basso reddito. Questo svantaggio tuttavia pesa di più sui maschi che sulle femmine: “le migliori performance delle ragazze – osserva l’Istat – riducono (senza annullarle) le differenze sociali: la quota di chi ha conseguito la licenza media con “ottimo” nelle famiglie operaie cresce dal 5,8% dei maschi al 18,2% delle femmine; se il capofamiglia è dirigente, imprenditore o libero professionista si va dal 20,4% dei maschi al 38,5% delle femmine”.

Ragionando, sembrerebbe dunque che, in fondo, questo grave gap culturale possa essere superabile, con l’impegno. La scuola può essere d’aiuto, solo che bisogna utilizzarla con convinzione perché possa diventare una leva sociale. Qualcuno, certo, potrebbe citare uno degli innumerevoli casi di figli di “dirigente, imprenditore o libero professionista” che, pur zoppicando a scuola, fanno poi una riuscita infinitamente migliore nel mondo del lavoro del figlio di operaio bravissimo sui banchi.

A prescindere da quello che poi accade nel mondo del lavoro, dove pesano altre variabili, sicuramente la scuola dovrebbe fare di più per superare il divario determinato dal censo e dalla posizione sociale. Sembra pensarlo anche il sottosegretario al Lavoro Maria Cecilia Guerra: “Questi dati confermano quanto sostenuto anche nell’ultimo rapporto Ocse sull’Italia (Reviving Growth ad Productivity) del settembre 2012, e cioè che il nostro Paese è fra quelli con minore mobilità sociale (assieme a Francia, Regno Unito e Stati Uniti) ma anche che l’istruzione può, in prospettiva, essere uno strumento fondamentale per superare questo problema”.