MANIFESTAZIONI IL COMMENTO Due violenze sbagliate di Massimo Giannini la Repubblica, 15.11.2012 Ribellarsi è giusto. Non c'è bisogno di rispolverare Jean Paul Sartre, per sapere che le migliaia e migliaia di donne e uomini, giovani e meno giovani che hanno riempito le piazze d'Europa hanno ragione. Nell'Occidente disorientato, dove una finanza senza regole ha divorato l'industria manifatturiera e un mercato senza Stato ha prodotto la disuguaglianza di massa, uno "sciopero europeo" è sacrosanto, quando invoca pacificamente più lavoro, più diritti, più giustizia sociale. Dopo mesi di scontri e di manifestazioni in Grecia, in Portogallo, in Spagna, era ovvio che l'onda della protesta tornasse a sommergere anche l'Italia. A meno che non si pensi (o non si voglia) che l'immagine-simbolo dei ragazzi italiani di oggi sia solo quella dei 50mila spensierati teenager accorsi sabato scorso al flash-mob di Piazza del Popolo, per ballare sulle note di un rapper coreano. Quello che non è affatto giusto è che la rabbia di una generazione, derubata del futuro da una stagione di sacrifici che non promettono il riscatto ma producono solo altri sacrifici, sfoci in una violenza altrettanto cieca e fine a se stessa. Ci saranno sicuramente "infiltrati", e forse non solo italiani dei centri sociali più pericolosi. Ma quei manifestanti con caschi e passamontagna che lanciano pietre sui poliziotti, sfasciano vetrine e assaltano banche, ci riportano ai giorni di sangue del G8 di Genova, che non vorremmo più vedere. E ci saranno probabilmente "saldature", tra le aree della sinistra radicale e le frange della destra estrema. Ma i cori che inneggiano a Saddam Hussein o gli slogan contro gli ebrei ci precipitano nell'incubo di un'"Alba Dorata" tricolore che non vorremmo mai vivere. Quello che non è giusto, allora, è che le intemperanze di una minoranza facinorosa, anarco-insurrezionalista o neo-nazista che sia, riducano al silenzio le ragioni di una maggioranza rumorosa, ma non violenta, che chiede all'Italia e all'Europa il coraggio di quel "rise up" che finora è mancato, e del quale c'è ovunque un disperato bisogno. Il buono che c'è, nella domanda di rappresentanza degli studenti umiliati da anni di tagli alla scuola pubblica, viene distrutto dalle fiamme delle molotov e dai colpi di spranga. Il buono che c'è nella domanda di equità della Cgil, per quanto isolata dagli altri sindacati, viene cancellato dagli ululati delle sirene e dal fumo avvelenato dei lacrimogeni. Per questo è importante che chi ieri ha urlato a viso aperto il suo disagio in ottantasette città condanni con la stessa indignazione le violenze, fisiche e verbali, di chi incrociava (rovinandoli) quegli stessi cortei. Quello che non è affatto giusto, per ragioni uguali e contrarie, è che a questa violenza sciagurata della piazza si risponda con una violenza esagerata dello Stato. Le forze dell'ordine, a loro volta esasperate perché vittime anch'esse dei tagli di bilancio, meritano rispetto. Ai poliziotti feriti si deve solidarietà. Ma le scene degli agenti che inseguono e circondano qualche manifestante isolato, e poi in gruppo lo riempiono di manganellate sul corpo e sul viso, tenendogli perfino ferme le mani, suscitano la stessa riprovazione di un black bloc che brandisce una mazza da baseball di fronte a una "guardia". Non è così che si tiene alto l'onore e il prestigio di una divisa. Non è così che si difende uno Stato di diritto. Quello che non è affatto giusto, infine, è che si speculi politicamente su queste proteste e su queste violenze. Che il governo e i partiti si rinchiudano nel solito gioco di ruolo, dove il primo si sente sempre in dovere di difendere "a priori" l'operato della polizia, e i secondi si rimpallano colpe sociali e responsabilità morali. E dove magari spunta il solito Grillo, che lancia appelli pseudo-pasoliniani al "soldato blu", chiedendogli di sfilarsi l'elmetto e la divisa e di andare in corteo a fianco dei manifestanti, perché ormai "c'è una guerra". Per fortuna qui non c'è nessuna "guerra". C'è una gigantesca emergenza, che è insieme economica e sociale, e interroga allo stesso modo e allo stesso tempo la nostra e tutte le democrazie. C'è un popolo trans-nazionale di oltre 212 milioni di disoccupati adulti, che non reggono più i morsi della crisi. C'è una generazione "Neet" di 14 milioni di ragazzi tra i 19 e i 25 anni, che non studiano più e non lavorano ancora e che chiedono una prospettiva. Questo non è un banale problema di "ordine pubblico". È invece un'immane "questione politica". Se solo le classi dirigenti, più o meno illuminate, sapessero vederla, capirla, e magari risolverla. m.giannini@repubblica.it |