editoriali Scuola, l’occasione perduta di Andrea Gavosto* La Stampa, 13.11.2012 Dopo le proteste che hanno coinvolto partiti, sindacati e naturalmente i diretti interessati – i docenti delle scuole medie e superiori -, il governo ha deciso di cancellare dalla legge di stabilità la misura che incrementava – a retribuzione invariata - l’orario di lezione dalle 18 ore attuali a 24. Il ministro Profumo ha spiegato che i 183 milioni di risparmio previsti sono stati trovati altrove. La parte più cospicua – si parla di circa 80 milioni – giunge da risparmi accantonati nel 2011 dal comparto scuola, di cui non si sapeva nulla ma che sono ora certificati dalla Ragioneria dello Stato. Per il resto, un insieme variegato di interventi. Ci sono tagli ai distacchi sindacali e di docenti impiegati presso le sedi ministeriali e il risparmio atteso dalla dismissione della sede del Miur all’Eur: entrambi sono indolori e ragionevoli, ma di modesta entità (meno di 8 milioni). Più dolorosi sono gli altri tagli: circa 40-50 milioni sottratti a bandi per la ricerca scientifica e tecnologica, e al progetto Smart City al Centro Nord, più altri 47,5 tolti al fondo per il miglioramento dell’offerta formativa. Ma tant’è: si tratta evidentemente di misure tampone, dettate dall’urgenza di far quadrare i conti. Chi protestava, ora plaude. Tutto bene quel che finisce bene? No. La retromarcia sull’orario di lavoro degli insegnanti rappresenta, a mio avviso, un’occasione perduta: non tanto per la proposta in sé, che conteneva aspetti discutibili, come l’imposizione che le ore addizionali fossero dedicate unicamente all’insegnamento ex cathedra e non ad altre attività didattiche o di formazione, quanto per il rischio di pregiudicare una seria riflessione sull’organizzazione della nostra scuola. Oggi infatti questa vive sulla base di un «patto scellerato» fra docenti e Stato: i primi sono pagati poco, devono formarsi a loro spese, sono tenuti a spostamenti continui nei primi anni di carriera, attendono in media undici anni prima di entrare in ruolo; in compenso, la qualità del loro lavoro non è sottoposta ad alcuna valutazione e lo Stato chiude un occhio sulle ripetizioni pomeridiane, rigorosamente in «nero». Questo modello di scuola che poco chiede e poco dà non è più compatibile con l’esigenza di dare un’istruzione di qualità a tutti, che richiede docenti di grande professionalità e costantemente aggiornati. Intendiamoci: molti insegnanti lavorano tantissimo, con grande sforzo e passione; ma il sistema non permette di discriminare fra questi e quelli che non si impegnano o non hanno una preparazione adeguata. Credo che, con il contratto di lavoro del 2014, sia tempo di offrire una scelta a chi lavora nella scuola. Chi vuole può continuare a lavorare le attuali 18 ore, sapendo che la retribuzione è destinata a rimanere bassa, in cambio del maggior tempo libero. Per gli altri, deve esserci l’opzione del tempo pieno, fino alle normali 40 ore, da svolgere con la presenza a scuola, tenendo corsi di recupero, correggendo e preparando verifiche, partecipando ad attività formative o di coordinamento didattico. Ovviamente, chi rimane a scuola tutto il giorno ha diritto a una carriera più rapida e a uno stipendio più elevato, in linea con quello che succede in Germania dove gli insegnanti lavorano 100 ore all’anno più dei nostri, ma guadagnano il 50% in più.
Il rischio è che,
avendo tentato di forzare la mano sull’orario senza successo,
l’inevitabile riorganizzazione del lavoro e delle carriere dei
docenti venga rimandata sine die.
* Direttore Fondazione Giovanni Agnelli |