Tfa, scacco matto al centralismo Matteo Foppa Pedretti , il Sussidiario 23.3.2012 Il fatto che si sia sbloccata la situazione del tirocinio formativo attivo (Tfa) per gli insegnanti è finalmente una notizia positiva. E questo per una serie di buoni motivi. Ognuno dei quali, essendo per davvero un buon motivo, apre interrogativi e problemi che, per quanto pongano alcune specifiche difficoltà, costituiscono altrettante opportunità per rivedere alla radice il concetto e il significato della professione dell’insegnante, per ridisegnarne lo scopo e la percezione sociale, e in ultima analisi per togliere la scuola italiana dalle sabbie mobili in cui è impantanata. Innanzitutto il Tfa è una buona cosa perché riconosce che l’abilitazione dell’insegnante ha molto a che fare con l’esperienza concreta della persona nell’esercizio di una professione, che come tutte le professioni, è fatta di conoscenze di cui il professionista è portatore, di capacità di leggere e muoversi in un contesto lavorativo, di potenzialità verificate relative alla capacità di ottenere risultati positivi nell’istituzione in cui si opera. Strutturare l’accesso al percorso professionale del docente attraverso un tirocinio vuol dire considerare e valutare la sua capacità professionale attraverso l’esperienza in un contesto reale, e non a prescindere da esso. Perché questo fondamentale risultato si ottenga, e diventi patrimonio acquisito della scuola italiana, occorre far sì che già da questa prima tornata l’accesso al Tfa sia legato in modo sostanziale ai risultati ottenuti e al curriculum che ogni candidato ha già maturato, oltre che alle competenze professionali specifiche relative al funzionamento della scuola: legare l’accesso al Tfa alle sole competenze disciplinari, significherebbe comprometterne seriamente la reale portata innovativa. Il secondo motivo per cui il Tfa è potenzialmente un elemento di svolta positiva è che presuppone necessariamente la separazione tra abilitazione e immissione in ruolo che sono in realtà due momenti tra loro profondamente diversi. Quando un laureato in legge (o in ingegneria, medicina, ecc.) chiede di essere abilitato, infatti,non chiede di entrare a far parte di una determinata organizzazione (in particolare nell’amministrazione pubblica) anche se in realtà molti troveranno proprio in quella amministrazione un posto di lavoro. Questo vale anche per l’insegnante, se è vero che la nostra Costituzione sancisce la libertà di insegnamento anche attraverso la libertà di istituire scuole per enti o privati. L’identificazione tra abilitazione e assunzione nello Stato ha determinato uno squilibrio tra insegnanti preparati e posti a disposizione nella scuola. Distinguere tra abilitazione e assunzione a tempo indeterminato full time significa anche permettere a tutti coloro i quali coltivano la vocazione professionale all’insegnamento di provare a verificarla concretamente (con un periodo di tirocinio, appunto) fino alla sanzione ufficiale della loro capacità professionale (l’abilitazione), mentre le condizioni contrattuali che regolano l’esercizio della professione saranno regolate con le modalità più opportune, sulla base delle disponibilità finanziarie e operative della scuola e degli interessi di sviluppo professionale del singolo insegnante (siamo sicuri che tutti ambiscano al posto fisso statale? Siamo altrettanto certi che tutti vogliano un impiego a tempo indeterminato e pieno? Non viene il dubbio che la carenza di insegnanti in materie tecnico specialistiche derivi anche dall’impossibilità per un giovane professionista di dedicare solo parte del proprio tempo o solo un periodo della propria carriera all’insegnamento? E che questo potrebbe essere un enorme arricchimento per una scuola che si avverrebbe così delle competenze di chi è dentro al mondo del lavoro?). Separare l’abilitazione dal reclutamento significa presupporre che non esiste un “archetipo” di scuola a cui tutti devono tendere, ma molteplici forme e quindi, ruoli, compiti e funzioni che un insegnante può assumere all’interno della scuola, e questo non per effetto di una previsione normativa (e quindi giocoforza burocratica, all’interno della vita dell’“Intendenza”) ma delle necessità educative e professionali concrete. Significa in sostanza creare le condizioni perche possano cominciare a intravvedersi gli spazi per una effettiva carriera professionale dei docenti, non burocratica e non fondata sulla semplice “anzianità di servizio”. Terzo buon motivo per cui il Tfa si può considerare un elemento di riforma della scuola italiana è che ha senso nella misura in cui la singola istituzione scolastica diventa co-protagonista nell’individuazione, nella crescita professionale e nella valutazione dei docenti professionisti. Da un certo punto di vista, la competenza disciplinare dovrebbe essere data per scontata, dal momento in cui l’aspirante docente professionista è in possesso di un documento in cui, “in nome della legge” si certifica che è dottore in matematica, lettere, fisica, giurisprudenza o economia. Quella che va fatta crescere, fruttificare e infine verificata è la competenza professionale che, acquisita in uno specifico contesto, può essere trasferita in altre organizzazioni e strutture educative: questo è compito specifico di ogni scuola, statale o paritaria, che aspiri ad essere centro di trasmissione e accrescimento di sapere, cultura, capacità delle persone. Proprio questo aspetto andrebbe valorizzato fin da questa prima tornata di Tfa: strutturando le prove d’accesso in modo da dare peso all’esperienza professionale del docente in classe, alle competenze trasversali fondamentali per la professione docente, quali quelle relative alla progettazione condivisa di percorsi, della valutazione, del lavoro in équipe; elementi che solo la singola scuola dove il docente ha già cominciato ad operare può valutare e certificare. La valorizzazione del ruolo delle singole autonomie scolastiche (che, non dimentichiamolo, sono istituzioni che compongono la Repubblica, ai sensi del nuovo titolo V della Costituzione...), necessario per dare al Tfa il suo vero valore, porta con sé anche l’esigenza di spostare il compito dell’assunzione del docente abilitato dal ministero alla singola scuola o a reti di scuole: una volta operato questo passaggio potrebbe cominciare a delinearsi una situazione in cui l’aspirante docente, in possesso dei titoli necessari, accede, laddove ci sia disponibilità, a percorsi di Tfa organizzati dalle singole istituzioni scolastiche in collaborazione con gli atenei interessati, verifica e accresce così le proprie concrete competenze professionali, si prepara e supera un esame di abilitazione (anche questo organizzato dalle istituzioni scolastiche in collaborazione con le università e la cui struttura venga garantita e non gestita dal ministero) a fronte del quale viene inserito nell’organico scolastico, secondo le modalità contrattuali previste dalla generale disciplina del lavoro pubblico (e quindi con concorso o a chiamata diretta, dove possibile, se l’istituzione scolastica è statale) o privato. Emersione della professionalità a tutto tondo del docente, superamento di un paradigma rigidamente disciplinaristico della docenza e della scuola, spazi per la creazione di una vera carriera docente, valorizzazione dell’autonomia scolastica, ruolo di governance del ministero. Linee di riforma necessarie e sempre più condivise del nostro sistema scolastico. Tutti elementi contenuti o presupposti perché il Tfa diventi non solo una buona notizia, ma un vero inizio di novità. |