Università e lavoro.
No ai polli di batteria

 dal blog di Giorgio Israel, 3.3.2012

L’ottima indagine che Marco Ferrante ha svolto per Il Messaggero sul rapporto tra università e mercato del lavoro offre molti spunti di riflessione che partono da un dato evidente: indirizzare le scelte del corso di laurea in modo che s’incontrino con l’offerta di lavoro resta un problema molto difficile e in buona parte irrisolto. È il caso di ricordare la conclusione del servizio: «Quello che sarà tra cinque o dieci anni è in parte una scommessa. La visibilità sul futuro del mercato del lavoro a medio termine resta limitata». La capacità di previsione dell’andamento generale dell’economia è ristretta spesso non al medio periodo – sul lungo periodo, per dirla con Keynes, siamo tutti morti – ma anche al breve periodo, per cui un eccesso di dirigismo in materia è sconsigliabile. Tentare di calcolare il fabbisogno di laureati nei vari settori per poi tentare di indirizzare le scelte formative degli studenti può rivelarsi un azzardo, non solo perché è problematico determinare il primo numero, o per la difficoltà di indirizzare le scelte, ma per i danni che possono provocare le rigidità derivanti da un approccio pianificatorio.

Vi sono situazioni in cui la questione può essere posta in termini diretti: il servizio menziona il dato di 117.000 posti di lavoro offerti nel settore tecnico-artigianale che sono andati deserti. Questo riguarda però la formazione tecnico-professionale, un settore che era di eccellenza nella tradizione italiana è che stato disastrato da pessime riforme. Ma l’università è un’altra cosa. L’università fornisce un tipo di formazione completamente differente, che non mira a creare forza lavoro specificamente indirizzata verso questo o quel settore, salvo casi particolari. Pertanto, il problema è culturale: si tratta di decidere quale modello si vuole dell’università. I tassi di disoccupazione dei laureati del 2005 – peraltro non così drammatici – oscillano tra un massimo del 14% e un minimo del 2%. È significativo il fatto che il minimo sia toccato dalla facoltà di Medicina che prevede uno sbocco occupazionale univoco; e che di poco superiori siano quelli di facoltà come Farmacia e Ingegneria. Soffrono di più le facoltà “generaliste” e non soltanto Scienze Politiche o Lettere e Filosofia ma anche Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali. Se ne potrebbe concludere che il male sta nella visione classica dell’università, come luogo di formazione e di cultura generale; e che il modello da adottare sia quello di una marcata specializzazione. Sono in molti a indicare questa come “la” soluzione, ma siamo certi che la ricetta non aggravi il male?
Nel servizio si mette in luce la differenza tra le università private e quelle statali. Non è solo una questione di numeri: le prime possono adottare un indirizzo preciso (commerciale, economico, manageriale) che conduce a determinati sbocchi occupazionali e a non ad altri (nessuno si iscriverà alla Bocconi per fare il filologo classico) mentre le seconde non possono farlo. E non perché un rettore eviti di indirizzare la scelta degli studenti verso una facoltà piuttosto che verso un’altra per non irritare qualche componente accademica, ma perché un simile modo di operare non corrisponde alla missione universitaria tradizionalmente intesa. L’approccio generalista è obsoleto e sbagliato? Per dirlo non basta limitarsi a deprecare i troppi letterati e avvocati. Bisogna dimostrare che la scienza di base non serve e che la facoltà di Scienze può essere riassorbita da quella di Ingegneria. È difatti evidente che la formazione di un laureato in fisica o in matematica, ma anche in biologia, non configura uno sbocco professionale preciso, per quanto possa essere specialistica la tesi di laurea scelta. Per far progredire le scienze applicate non servono più fisici teorici, chimici o matematici? Sarebbe una tesi avventata a fronte di quello che insegna la storia della tecnologia, termine che vuol dire proprio questo: tecnica fondata sulla scienza. È difficile immaginare che un paese avanzato, che non si accontenti di vegetare sulle scoperte altrui, possa avere un futuro senza scienza di base.

Peraltro, lo sviluppo della tecnologia si è sempre avvalso di un atteggiamento lungimirante da parte delle imprese, consistente nel privilegiare le persone aventi una formazione di base e generale solida, proprio in quanto capaci di autonomia e di flessibilità, riservandosi di fornire in azienda le competenze specifiche. È da augurarsi che non prevalga la visione miope di cercare persone formate per mansioni particolari invece che dotate di flessibilità e autonomia intellettuale, modellando l’università su questi scopi ristretti, come un servizio di formazione addetti. Si parla tanto dell’esigenza di “imparare a imparare” e poi rischiamo di chiedere all’università di venir meno a una delle sue funzioni principali, “insegnare a imparare”.

Va inoltre osservato che il fatto che molti giovani cambino indirizzo non va considerato a priori come un “errore”. La scelta di cosa fare nella vita – che può non essere affatto quel che si farà per sempre! – è molto complessa e spesso il cambiare corso di laurea dopo un anno o due non è di per sé negativo, ma può essere il segnale di una maggiore consapevolezza che può condurre ad aggiustare efficacemente le proprie scelte.

Di certo, queste riserve non vogliono dire che il sistema universitario funzioni bene. Ma non convince che la via da seguire sia quella di un raccordo meccanico tra formazione e mercato del lavoro: una cinghia di trasmissione del genere, se troppo stretta, sarà dannosa per entrambi i settori. I mali dell’università sono ben noti e hanno origine nel modo sconsiderato con cui sono state fatte riforme che, in un diluvio di regolamentazioni minute e formalistiche, hanno mutato (e continuano a mutare) l’istituzione in un enorme, elefantiaco apparato burocratico in cui l’ultima delle funzioni è quella di insegnare e la prima quella di “gestire”. Oggi il percorso di uno studente non è quello di chi per cinque anni può pensare alla propria formazione, bensì quello di chi deve battersi per superare un percorso a ostacoli costituito da miriadi di esamini spezzettati in pochi crediti, in una parcellizzazione che disgrega qualsiasi valore culturale e non lascia spazio alla crescita di alcun autentico interesse. La vera riforma da fare è abbattere questa burocrazia e ripensare i contenuti culturali dell’università. Si lamenta tanto di avere troppi avvocati e troppi esperti in comunicazione e che la cultura scientifica sia trascurata? La via per valorizzare la cultura scientifica, di cui si proclama tanto la necessità, non è quella di trasformarla in percorsi direttamente applicativi, funzionali a uno sbocco professionale determinato a priori. Così non formeremo persone capaci e autonome, ma polli di batteria, per giunta spesso frustrati.