SCUOLA

Invalsi, quegli errori di italiano
che i prof non correggono

Daniela Notarbartolo, il Sussidiario 21.3.2012

È da molti anni che il professor Luca Serianni è impegnato non solo nello studio accademico ma nella difesa militante della lingua italiana. Egli fu tra i pochi che aveva riconosciuto aspetti positivi nella proposta, risalente al 2005, di un “Consiglio superiore della lingua italiana”, in mezzo alle aspre critiche dei linguisti timorosi che il nuovo organismo esprimesse “un disegno di carattere prettamente politico, omogeneo a una concezione di società che prevede il controllo politico anche di un importante ambito delle libertà della persona, come i diritti linguistici, prospettando un marchio ideologico all’educazione linguistica”.

Serianni si rendeva conto già allora del rischio assai attuale che si perdesse “il contatto con un lessico che per dignità semantica e spessore intellettuale supera il parlato quotidiano in cui siamo immersi per strada, ascoltando i grandi mezzi di comunicazione audiovisiva o girellando nei ‘canali chiacchiera’ in rete”. Rischio che nemmeno la scuola pare contrastare: nell’ottobre 2006 uscì un documento congiunto delle Accademie dei Lincei e della Crusca, Lingua italiana, scuola, sviluppo, nel quale si lamentava tra l’altro la scarsa incidenza dell’insegnamento scolastico sulla padronanza della lingua materna. Purtroppo è sistematico che anche gli editori, che dovrebbero promuovere la cultura, invitino i loro autori a scrivere con un lessico assolutamente piano e prevedibile (che si tratti di narrativa o di testi scolastici). Eppure – come scriveva ancora Serianni – “è deleterio proporre a giovanissimi studenti solo testi elementari, ad usum puerorum, col proposito di eliminare il necessario sforzo, e anche la noia e la fatica sovente connessi al mestiere dell’apprendimento”. La conseguenza della semplificazione è che la comprensione dei testi scritti è diventata ardua, e in particolare il lessico posseduto dai nostri studenti è insufficiente persino a leggere un quotidiano nazionale. Scelte culturali discutibili quindi, giacché “il cimento – l’attrito avrebbe detto Graziadio Isaia Ascoli – con un testo scritto in una lingua diversa da quella più spontanea ha sempre un forte potenziale educativo”. L’allarme è ormai presente all’opinione pubblica, anche se solo a scadenze dettate dagli scoop.

Nei giorni scorsi è uscito il terzo Rapporto Invalsi sulla prima prova all’esame di Stato della scuola superiore, intitolato Rilevazione degli errori più diffusi nella padronanza della lingua italiana nella prima prova di italiano. Il progetto quest’anno ha avuto come coordinatore scientifico proprio Serianni e come “correttori” non degli insegnanti bensì un gruppo di sei laureati iscritti ai corsi di laurea magistrale di Letteratura e Lingua. Il campione di prove scritte è stato esaminato utilizzando la scheda di correzione elaborata dall’Invalsi e dall’Accademia della Crusca in precedenti edizioni del progetto, ma focalizzando l’attenzione sulle tipologie di mende che si presentano più di frequente negli elaborati e articolando la scheda in descrittori di errore e non di “prestazione”.

Il progetto è riuscito a dare un quadro preciso della situazione anche grazie al metodo di lavoro dei correttori, che hanno operato sempre in compresenza per discutere insieme i casi dubbi, e hanno ricavato dal campione una casistica molto interessante dei malfunzionamenti a tutti i livelli (testuale, grammaticale, lessicale, ideativo). Per questo il Rapporto è interessante non solo per la descrizione degli errori di scrittura, ma per l’ampia esemplificazione: ne può trarre vantaggio un insegnante di italiano, a cui nessuna università ha mai proposto un corso teorico-pratico di “valutazione dello scritto”: nel corso degli anni ciascuno si forma una griglia implicita che raramente ha occasione di confrontare con i colleghi. In questa griglia implicita hanno un posto ben preciso gli errori ortografici e gli svarioni di grammatica, ma altri aspetti altrettanto importanti, se non addirittura più sostanziali per una pagina scritta (come la capacità di organizzare gli argomenti attorno a un’idea centrale, oppure l’uso esperto della punteggiatura), sono molto meno presidiati dagli insegnanti. Non c’è adeguata coscienza di come si possano osservare la “successione tematica” o le “solidarietà lessicali”, con la conseguenza che gli studenti nemmeno percepiscono il problema e cadono in errori ripetuti e sostanziali.

Non c’è solo una scarsa attenzione degli insegnanti su alcune caratteristiche dello scritto: è come se ci si rassegnasse al fatto che non è possibile andare oltre la virgola mal collocata, oppure oltre un’architettura testuale raffazzonata cucendo insieme citazioni scollate fra loro dei documenti del saggio breve. La constatazione diffusa è che alle superiori arrivano studenti che non hanno nemmeno le basi di una lingua corretta, ricca, articolata e piena di sfumature, capace di cogliere il reale nella sua complessità: a quel punto la battaglia sembra già persa.

La rassegnazione di fronte alle mende di carattere testuale (la coesione e la coerenza prima di tutto) e alla povertà linguistica sono segno di un fallimento più generale: la lingua non è più socialmente sentita come un patrimonio da trasmettere alle giovani generazioni. Il fatto è che per molti anni la lingua non è stato un “bene giuridico tutelato”, ed è inutile stracciarsi le vesti. Dopo il giusto sdoganamento delle varietà dialettali, sociali, regionali a fronte della lingua toscaneggiante e letteraria che ha costituito la norma nei primi anni della Repubblica, il parlato spontaneo è diventato oggi unità di misura generalizzata. Persino a scuola, quella che con la sua azione dovrebbe contrastare le differenze socioculturali delle famiglie d’origine. Non è sentito come un oggetto di attenzione il “lessico astratto” – emulare, cruciale proiezione (astratto in sé, non certo avulso dalla vita sociale e professionale), che è poi il linguaggio in cui si esprimono la cultura e la scienza. La padronanza di una lingua che io chiamo “adulta” dovrebbe essere invece obiettivo specifico di apprendimento della scuola superiore, avendo alle spalle un buon cammino di riflessione sulla lingua nel primo ciclo.

Ma qui si tocca un punto dolente della scuola italiana: l’insegnamento della lingua insiste sul tradizionale apparato descrittivo-tassonomico fatto di definizioni e sottocategorie, e non invece sulla osservazione dei dinamismi sintattici e semantici costitutivi del testo, sull’italiano contemporaneo nei suoi aspetti colti, sulla valorizzazione linguistica degli autori della letteratura. Le tipologie delle prove scritte non sempre sono idonee alla familiarizzazione con la scrittura, anche perché l’elemento della verifica del contenuto finisce per prevalere sugli aspetti testuali e linguistici: da questo punto di vista sono molto diffuse le critiche alla tipologia del “saggio breve”, che pone agli studenti problemi di organizzazione testuale che non sanno nemmeno affrontare. Proprio per sensibilizzare gli insegnanti su queste urgenze è stato promosso il Progetto Italiano, a seguito di un protocollo d’intesa fra l’Accademia dei Lincei e il Miur del novembre 2010, con seminari che coinvolgono le scuole in diverse parti d’Italia.

Ritengo perciò che il Rapporto Invalsi appena pubblicato non sia l’ennesima occasione per lamentarci delle nostre magagne: come ogni “crisi” è l’occasione per cambiare strada e per intraprendere con decisione un rinnovamento nei fini e nei mezzi dell’educazione linguistica. È quindi per me una buona notizia che la lingua italiana nella sua ricchezza sia di nuovo un “bene culturale” da tutelare: insieme al linguaggio può fiorire un rapporto più ricco con la realtà di cui si parla.