Chiosso: tecnici vs. licei, intervista a Giorgio Chiosso, il Sussidiario 15.3.2012
Nel mezzo della
crisi, gli istituti tecnici e i professionali scavalcano i licei. Il
Miur ha reso noti i dati delle iscrizioni al primo anno delle scuole
secondarie di II grado, dai quali si può vedere che le
percentuali della Lombardia, pubblicate nei giorni scorsi,
riguardavano in realtà una tendenza in atto a livello nazionale. Il
52 per cento degli studenti che andranno alle superiori l’anno
prossimo varcheranno la soglia di un istituto tecnico (31,5%, 30,4%
nel 2011) o di un istituto professionale (20,6%, 19,7% nel 2011). I
licei scendono invece dal 49,9% del 2011 al 47,9% del prossimo anno.
E tra i licei, è il classico a soffrire di più: perde quasi un
punto, passando dal 7,52% al 6,66.
Per cominciare,
sarei cauto. Innanzitutto, perché sono variazioni relativamente
modeste: non parlerei di sorpasso storico, come si legge da qualche
parte, ma di lievi inversioni di tendenza. Occorrerà vedere cosa
accadrà nei prossimi anni. Seconda considerazione, sono dati
nazionali: per capire meglio bisognerebbe disaggregarli secondo le
quattro macroaree del Paese, e non solo.
Per sposarli come
cambio di tendenza vero e proprio, c’è tempo. Detto questo, restano
significativi e qualche conclusione è comunque d’obbligo. Una prima
spiegazione viene naturale: una parte delle famiglie è in difficoltà
economica e non se la sente di sobbarcarsi un grande sacrifico a
fronte di un esito incerto. Meglio, quindi, un diploma tecnico di
uno liceale. La cosa più interessante è che sarebbe un ritorno a
quello che si pensava negli anni 60 e 70. Il boom degli istituti
tecnici fu anche dato dal fatto che garantivano un minimo di
mobilità sociale entro limiti accettabili di sicurezza lavorativa.
Questa è un
secondo elemento da considerare: la ricerca di una scuola meno
impegnativa. Nel contesto dell’opzione liceale, i licei «light»
erodono una parte degli iscritti ai licei vecchio stampo; e infatti
il classico è il liceo più penalizzato.
In misura
limitata. Il battage da parte di Confindustria o del ministero
sull’importanza dell’istruzione tecnica per lo sviluppo economico
dell’Italia non ha secondo me un esito decisivo, perché le famiglie
sono più pragmatiche. Nel caso dei professionali, è certamente vero
che quella formazione dà più facilmente e rapidamente accesso ad
un’attività lavorativa; e gli italiani lo sanno.
È indubbio. Più le
difficoltà economiche pesano sulle famiglie, più la provenienza
sociale incide sulla scelta. I dati dicono che nei licei c’è
storicamente una prevalenza di famiglie di reddito medio alto e nei
professionali una prevalenza di famiglie a basso reddito. Un
discorso a parte va fatto per l’ingresso degli alunni immigrati
nelle scuole superiori. Questi giovani, che fanno parte di una
struttura sociale debole, accedono preferenzialmente ai
professionali, in misura minore ai tecnici e scarsissima nei licei.
Questa tendenza alla stratificazione è storica ed è probabile che
con la crisi si accentuerà.
Certamente le
tendenze generali dicono che è più facile occuparsi se si ha un
titolo di studio o di laurea, però il problema sta nella qualità
ottenuta con il nuovo corso di studi, che non è mediamente
all’altezza della vecchia laurea quadriennale. Sono in molti oggi a
pensare che la laurea prometta molto ma in pratica dia relativamente
poco. Inoltre c’è una altro mutamento che mi pare interessante e che
sta a mio avviso modificando profondamente il profilo degli
studenti.
Al fatto che
sempre più studenti universitari affiancano allo studio un’attività
lavorativa. È importante per due ragioni: da una lato sta a
significare che le famiglie da sole non ce la fanno, dall’altro è
sintomo di quella che chiamerei «ansia da occupazione»: i giovani
sentono che non c’è lavoro, che l’università non lo garantisce
automaticamente oppure lo assicura ma molto al di sotto delle
aspettative, leggono che il precariato dura fino a 35 anni. Per
questo decidono di cercare un lavoro da conciliare con lo studio; lo
vedono come un modo di tastare il terreno, di esplorare il mondo nel
quale si troveranno da lì a pochi anni. Dal punto di vista sociale è
un fenomeno completamente diverso da quello dello studente
lavoratore classico.
Eviterei di fare
ritocchi. Siamo reduci da un riassetto che non ha innovato molto e
non è nemmeno entrato a regime, perché le indicazioni nazionali per
i licei e l’istruzione tecnica e professionale devono ancora
produrre i loro effetti. Il problema è piuttosto un altro, ed è
l’occasione che ci siamo lasciati sfuggire nel 2003.
Sì. Quella legge
prevedeva la costituzione di un unico sistema di istruzione e
formazione che avesse però due gambe, una liceale e l’altra
tecnico-professionale – come si diceva allora – entrambe di pari
dignità. Lo Stato si sarebbe fatto carico della parte liceale, le
regioni di quella tecnico professionale.
Ci avrebbe
permesso di superare il cosiddetto modello gentiliano, che nel bene
e nel male ha garantito la qualità della nostra scuola per decenni,
ma che non poteva resistere indefinitamente alla prova del tempo. A
mio modo di vedere, una doppia scuola della cultura – una di tipo
prettamente liceale e l’altra centrata sul lavoro – non era una
brutta idea. Ho detto cultura del lavoro, e non mero «addestramento»
ad esso. Aver visto nella cultura professionale, e in parte anche in
quella tecnica un «fare» subalterno, è stato sempre un nostro errore
culturale. La radice comune poteva e doveva essere la pari dignità
dell’educazione al ragionamento, che si può sviluppare sia
traducendo Tucidide dal greco, sia facendo una rilevazione
topografica. Purtroppo, allo stato mi sembra improbabile. |