SCUOLA

Lo "spread" tra licei e tecnici:
cosa scelgono davvero gli studenti?

Silvio Galeano  il Sussidiario 30.2012

La tendenza in atto a livello nazionale, stando ai dati resi noti dal Miur basati sui circa 570mila frequentanti l’ultimo anno della scuola secondaria di primo grado, è il timido segnale di un riorientamento delle famiglie (inutile pensare ad una presa di coscienza dei quattordicenni) e forse più realisticamente dei docenti soprattutto di lettere e di matematica della scuola media italiana.

Se i licei passano dal 49,9% del 2011 al 47,9% del prossimo anno scolastico e gli istituti tecnici e i professionali complessivamente considerati dal 50,1% al 52,1%, non credo proprio che ci sia da stracciarsi le vesti, semmai da rallegrarsi sull’efficacia dei dati divulgati dai media che hanno descritto la grave carenza di tecnici nel nostro Paese: circa 100mila posti disponibili nel nostro mercato del lavoro interno e attualmente non coperti da italiani. Per i professionali è bene notare che quasi la metà della scelta si concentra sull’indirizzo alberghiero, mentre poche frazioni ancora si rivolgono ai settori dei Servizi e delle Manutenzioni.

Solo, comunque, una miope pregiudiziale ideologica, quale quella che, dalla fine degli anni settanta, ha teorizzato il “tutti laureati” può rammaricarsi di questo lieve “spread” fra licei e tecnici, che, fra l’altro, è leggermente a favore di questi ultimi. A questo proposito, sarebbe interessante che filosofi, sociologi, economisti, opinion leaders, insomma i mâitre à perser contemporanei ci dicessero, in base alle loro analisi, qual è il rapporto più “equo”, in una società moderna ed equilibrata, fra la formazione liceale e la formazione tecnica. Esiste una “sezione aurea” sociale fra componente umanistico-scientifica e componente tecnico-scientifica?

Sono, infatti, variazioni modeste, non c’è alcun sorpasso storico, solamente una “lieve” inversione di tendenza, che si tratterà di vedere se confermata o meno nei prossimi anni.

Se andiamo indietro nel tempo, il boom degli istituti tecnici (e dei professionali) alla fine degli anni 60, fu il segnale (se non la conseguenza) sia di una economia italiana in forte crescita, che richiedeva un gran numero di “quadri” e di operai specializzati per le industrie, sia di una istituzione scolastica capace di porsi in stretto rapporto con la società, con le sue esigenze economiche generando risposte adeguate al bisogno. Non a caso i nuovi istituti professionali nacquero, allora, come scuole superiori triennali, vocate specificamente alla formazione professionale e dotate di autonomia gestionale e didattica per essere quanto più possibile funzionali alle esigenze, come si dice oggi, del Territorio.

Tornando ai nostri giorni, mi pare che non sia ancora spenta l’eco delle giuste lamentazioni che abbiamo fatto fino a ieri su una scuola completamente avulsa dalla realtà e meno che mai consapevole dei problemi del mondo del lavoro. Se però cambia il “trend” fra licei e tecnici, ecco che si temono le vertigini di un mutamento epocale. Ma non è così. E da un certo punto di vista non lo è mai stato. Un esempio? Quando lo stesso Giovanni Gentile ideò (sic!) la sua Riforma, non a caso pose l’istituto tecnico strutturalmente alla pari del liceo classico: scuola quinquennale l’uno, scuola quinquennale l’altro, accesso a tutte le facoltà universitarie l’uno, accesso al politecnico l’altro. Tutto il resto era di quattro anni.

Lo sviluppo scientifico e tecnologico del secondo novecento hanno, poi, fatto il resto per colmare la riduzione concettuale dell’idealismo sulla natura e l’affermazione definitiva della prospettiva scientifica galileiana con quello stretto rapporto teoria/pratica, che dà pari dignità anche allo studio sul “grande libro della natura”. Come a dire che le vecchie “via all’in su” (induzione) e “all’in giù” (deduzione) delle speculazioni filosofiche del passato si siano riconciliate nella reciproca sinergia, quali vie entrambe adeguate dell’intelligenza e dei suoi processi conoscitivi. Per cui, da educatori, non smetteremo mai di richiamare gli studenti del classico a misurarsi con la realtà, dopo averli formati alle necessarie capacità di astrazione e di logica, e, viceversa, sappiamo che la finalità formativa degli allievi dei tecnici non può escludere la necessità di puntare sempre più alle sfere dell’astrazione e della dimensione simbolica.

Ma se questi sono alcuni antefatti, che tecnici e professionali troveranno l’anno prossimo tutti questi ragazzi?

Gli istituti tecnici di oggi non sono più certamente quelli della fine degli anni 60. E nemmeno l’impianto prefigurato dalle ipotesi di riforma Moratti-Bertagna, che prevedeva la costituzione di un unico sistema di istruzione e formazione a due canne d’organo (una liceale a carico dello Stato e una tecnico-professionale a carico delle Regioni) si è concretizzato. Saremo, invece, al terzo anno dell’intervento Gelmini-Tremonti, che ha ridotto le ore da 36 a 32 settimanali per cui un docente di lettere, che aveva complessivamente 10 ore in una classe, adesso ne ha complessivamente 6; quello di matematica è passato da 5 a 4; i laboratori (chimica, fisica, scienze) sono stati ridotti tutti di un’ora, mentre sono state introdotte le tecnologie informatiche [3(2) ore]. Gli effetti non sono ancora documentabili, si vedranno nel tempo. Certo l’obiettivo di ridurre l’abnorme frammentazione (39 indirizzi e oltre 160 sperimentazioni solo nei tecnici, stratificatasi nel tempo) è stato raggiunto: due soli grandi settori, suddivisi in undici indirizzi, nei tecnici e due settori, con sei indirizzi, nei professionali.

I Regolamenti dei nuovi tecnici e professionali, poi, prevedono espressamente quote di curricolo (fino al 30% nel secondo biennio e 35% nel quinto anno per i tecnici; entro il 35% nel secondo biennio e 40% nel quinto anno per i professionali) quali spazi di flessibilità per la “ulteriore articolazione delle aree di indirizzo in un numero contenuto di opzioni”.

Di nuovo, a mio avviso, c’è qualcosa che, a dire il vero, non è stata tanto evidenziata e cioè una maggiore sensibilità ministeriale verso le esperienze di alternanza scuola-lavoro, che il Miur e le Regioni stanno incentivando con (ancora magre) risorse, ma che è il segnale di una attenzione ad uno strumento di formazione (quando non si limita al semplice “turismo industriale”) che sicuramente favorisce l’acquisizione delle competenze (sempre che le esperienze lavorative siano effettivamente tali). Sia nel tecnico industriale che nei due professionali che dirigo, ho visto studenti veramente felici di operare in un “cantiere”, che era la scuola stessa: un impianto elettrico da mettere a norma, ovviamente sotto la guida degli ingegneri elettrotecnici loro docenti e dei tutor aziendali della ditta appaltatrice.

Oppure, la proficua sinergia con un istituto tecnico commerciale (della città), con cui la scuola è da poco in rete, che ha utilizzato un’esperienza di “simulazione aziendale”, prevista dal proprio curricolo, finalizzata alla “promozione” dei prodotti della trasformazione agroalimentare dell’azienda agraria del mio professionale per l’agricoltura. Ragionieri ed operatori agricoli si sono incontrati più volte e misurati, sul concreto, gli uni ponendo le proprie ragioni agli altri per mettere insieme le reciproche conoscenze e raggiungere uno scopo comune.

Rarae Aves? Può darsi, ma in prospettiva c’è una legge sull’apprendistato (D.Lgs. n. 167 del 14 settembre 2011) che potrebbe ancora essere declinata nella direzione della vera formazione professionalizzante affinché dai tecnici e dai professionali un buon numero di allievi possano già uscire, fra tre anni, con un contratto a tempo indeterminato in tasca. Sarebbe un bel contributo della scuola alla società in questo momento storico.

Ritorna, pertanto, la questione che mi ponevo altrove: che cosa si può fare per trasformare tecnici e professionali in scuole di serie “A”?