L'EDITORIALE
Scuola e università attendono Tito Boeri la Repubblica, 15.3.2012 Un tecnico al governo diventa inevitabilmente un politico. Ma dovrebbe essere un politico che non ha l'ansia di essere rieletto. Che perciò guarda molto più in là delle prossime elezioni, preoccupandosi di lasciare in eredità al Paese riforme che daranno i loro frutti fra cinque, dieci, anche vent'anni. Ci auguriamo tutti, in Italia e fuori (l'editoriale del Financial Times di ieri era dedicato proprio all'Italian Job) che la riforma del lavoro abbia queste caratteristiche. Speriamo che pensi davvero anche a chi non è oggi rappresentato al tavolo della trattativa, a partire dai giovani del cosiddetto parasubordinato. L'unico modo per proteggerli e valorizzare al contempo il loro capitale umano è trasformare i loro contratti in rapporti di lavoro subordinato non solo nella sostanza, ma anche nella forma. Solo così saranno coperti contro il rischio di licenziamento, quale che sia la riforma degli ammortizzatori, e potranno ricevere la formazione che normalmente viene fornita ai giovani sul posto di lavoro. Ma c'è anche un altro terreno su cui è fondamentale allungare gli orizzonti dell'azione di governo e pensare ai giovani. È quello degli investimenti nella scuola e nell'università. Anche su questo piano è fondamentale imprimere una svolta decisa rispetto alla miopia della classe politica e alle scelte suicide del governo precedente, che hanno sistematicamente disinvestito nel capitale umano. Purtroppo sin qui di questa svolta non c'è traccia. Il governo precedente ha ridotto l'obbligo scolastico da 16 a 15 anni. La prima cosa che ci si sarebbe aspettata da un governo che, a partire dal discorso programmatico di Monti al Senato, ha posto al centro della sua azione il problema giovanile e l'innalzamento del livello di istruzione della forza lavoro, è la riconsiderazione di questa scelta dissennata, che va in senso diametralmente opposto a quanto avviene nel resto del mondo. Come mostrato da Daniele Checchi, c'è un picco negli abbandoni in Italia appena espletato l'obbligo scolastico: le famiglie si adattano immediatamente a questi cambiamenti normativi, pianificando diversamente il percorso di studi. Quindi ridurre l'obbligo scolastico significa ridurre programmaticamente il livello di istruzione della nostra forza lavoro, il contrario di quanto il nuovo governo dichiara di volere fare. Come minimo, avremmo perciò pensato di vedere nei primi 100 giorni del nuovo esecutivo il ripristino dell'obbligo scolastico a 16 anni. Come massimo, avremmo voluto sentire proporre il suo graduale innalzamento fino a 18 anni. Questo contribuisce grandemente alla crescita di un paese, man mano che le generazioni più istruite escono dalla scuola. Di quanto? Secondo le stime più recenti basate sull'esperienza internazionale, l'allungamento di tre anni dell'istruzione media della forza lavoro è associata a un incremento del tasso di crescita di un paese di circa l'1 per cento ogni anno. Significa essere di quasi un quarto più ricchi nel corso di venti anni. Non poco per un'economia come la nostra rimasta al palo del 1999 e che, ai tassi di crescita attuali tornerà solo nel 2020 ai livelli di reddito precedenti la Grande Recessione. Non c'è traccia di questa lungimiranza neanche quando il governo parla di infrastrutture. Dimentica sistematicamente che la prima infrastruttura da modernizzare è l'edilizia scolastica. Da anni ci è stata promessa l'anagrafe degli edifici in cui i nostri figli vanno a scuola. Secondo i dati sin qui disponibili, due edifici su tre hanno più di 30 anni. Di questi solo il 22 per cento è stato ristrutturato. Mille scuole sono state costruite prima dell'Ottocento e più di tremila tra il 1800 e il 1920. Di quasi 7mila edifici non si sa neanche la data di costruzione. Fatichiamo a vedere infrastruttura più urgente e più importante al tempo stesso di un'edilizia scolastica che garantisca sicurezza e aule adeguate per l'insegnamento ai nostri figli. Il ministro Profumo conosce a fondo l'università. Potrebbe davvero imprimerle una svolta. Invece sin qui si è limitato ad assecondare la paralisi impostaci dal suo predecessore. L'Università italiana rimarrà bloccata, nella migliore delle ipotesi, per altri tre anni, nella peggiore per altri cinque anni. Questo perché la cosiddetta riforma Gelmini (non bisognerebbe mai chiamare riforme provvedimenti che al 90 per cento sono indefiniti) richiede qualcosa come 45 tra decreti legislativi, decreti ministeriali, regolamenti e decreti di natura non regolamentari e almeno 14 atti regolamentari da parte di ciascuna università. Prima di allora tutto rimarrà bloccato. Peggio ancora, è sempre più forte il rischio che nella transizione entri ancora di più la politica nelle università. Ieri abbiamo saputo che sono stati prorogati di un altro anno i Rettori degli atenei che hanno sin qui approvato gli statuti in seconda lettura. È la seconda proroga dopo quella già decisa l'anno scorso. Questo significa che persone che hanno orizzonti molto brevi e che in non pochi casi hanno un'agenda politica, potranno nominare i componenti dei consigli d'amministrazione delle Università. Il ministro Profumo dovrebbe chiedere a questi Rettori di dimettersi. Certo, avrebbe dovuto dare fin dall'inizio il buon esempio dimettendosi lui stesso dalla presidenza del Cnr, non appena ricevuta la nomina di ministro. |