Puerocentrismo o adultocentrismo? Abstract: In una società che stenta a proporre esempi di una umanità matura e responsabile, l’Autrice riscopre l’unicità e la ricchezza del punto di vista dei bambini. di Margherita Marzario Educazione & Scuola 31.3.2012 Nei testi normativi e non, si fa un gran parlare di centralità della persona ed in particolare di quella del bambino. Per centralità del bambino si dovrebbe intendere il tenere conto nell’azione educativa e in ogni tipo di intervento (amministrativo, politico, sociale) della singolarità e complessità di ogni bambino, della sua articolata identità in tutti i suoi aspetti (cognitivi, affettivi, relazionali, corporei, etici, spirituali, religiosi), delle sue aspirazioni, capacità e fragilità (su cui bisogna maggiormente puntare l’attenzione), nelle varie fasi di sviluppo e di formazione aiutandolo (e non sostituendolo né assecondandolo) nel sollevare domande esistenziali e nell’andare alla ricerca di orizzonti di significato (mutuando la terminologia del secondo paragrafo delle Indicazioni per il curricolo del 2007 del Ministero della Pubblica Istruzione). Nella realtà non è così, anziché il puerocentrismo sembra regnare un arrogante adultocentrismo, atteggiamento che pone al centro della percezione e dell’interpretazione del mondo, anche di quello infantile, gli schemi mentali e il punto di vista dell’adulto. Il filosofo francese Marcel Gauchet scrive: “Se il XX secolo è stato il secolo della scoperta del bambino reale, supportata dalla nascita contemporanea della pediatria, della pedagogia e della psicoanalisi, il XXI sembra aprirsi come il secolo della sacralizzazione del bambino immaginario. La nostra società esalta a tal punto la dimensione infantile da arrivare a mitizzarla e, alla fine, a mistificarla”[1]. Secondo il filosofo i bambini che non sono figli del caso e della vita, ma di un progetto preciso, fanno più fatica ad accettare di essere persone qualsiasi. Sono abituati a genitori che si sentono in dovere di confermare loro, ogni istante, che sono stati veramente voluti. Si sentono unici e speciali, degni di una vita speciale. Altrove Gauchet aggiunge: “Genitori strateghi, interessati alla riuscita, costi quel che costi, dei loro figli, non esiteranno a mettere una scuola contro l’altra, a lasciarla alla prima mancanza o al primo segnale di cattivo funzionamento. Veri e propri guardiani della riuscita dei loro figli, rendono vana l’idea di una politica collettiva e “ridistributiva” che metta in secondo piano le loro esigenze”[2]. Si ha così una “privatizzazione” dei figli che non accettano sconfitte né sacrifici e a cui tutto è dovuto. Nella nostra società si rincorrono in maniera quasi compulsiva atteggiamenti, nei confronti dei bambini, discordanti se non schizoidi. Quando si discute in ogni campo della famiglia, il punto di vista dei bambini è di solito assente da questo dibattito, riguardando solo le opinioni e le preferenze degli adulti. I genitori e gli adulti in generale sono spesso immaturi, disorientati, confusi, “adultescenti” ancora alla ricerca della propria identità e all’inseguimento dei propri sogni, per cui i coetanei prendono il posto dei genitori nella vita dei figli; fenomeno a cui lo psicologo canadese Neufeld Gordon[3] ha dato il nome di “orientamento ai coetanei”, nel senso che bambini e ragazzi tendono a rivolgersi ai coetanei per avere indicazioni rispetto ai valori, all’identità e ai codici di comportamento. Le donne tendono ad avere figli in età sempre più avanzata (o addirittura in menopausa) e a fermarsi spesso al primo figlio togliendo ai figli la possibilità di avere madri giovani che crescano genitorialmente con loro e la ricchezza della “fratria”. I bambini sono frequentemente percepiti come elementi di disturbo, di cui sono esemplari gli hotel o le vacanze “child free” (liberi da bambini, vietati ai bambini) o all’interno di molte famiglie l’unico bambino è il centro delle attenzioni (e non tanto dell’attenzione) di tutti (genitori, nonni, zii) diventando un’icona, un oggetto da proteggere o un piccolo tiranno. Le politiche sono più politiche “mother friendly” (“amiche della mamma”) e non “family friendly” trascurando che il bambino non ha diritto solo ad avere una madre disponibile ma un’intera famiglia; queste politiche portano a minor coesione sociale, a deficit di reciprocità nelle relazioni tra i sessi e senso di solitudine, condizioni non ideali per i bambini. Anche i testi normativi sull’infanzia e l’adolescenza sono concepiti da e per adulti, per cui non sono fruibili dai loro destinatari tanto che una versione semplificata della Convenzione Internazionale dei Diritti dell’Infanzia è stata curata dall’Associazione Telefono Azzurro nel 1997. La famiglia rappresentata nelle fictions è soprattutto quella “ricostituita” dopo precedenti e fallite esperienze matrimoniali o sentimentali; anche se in Italia è un modello ancora minoritario, si presta meglio a trame complesse, ma è inadatta per i bambini per i quali è destabilizzante e diseducativa. Per non parlare di televisione in generale e altri media, videogiochi, giocattoli e abbigliamento, che non sono a “misura di bambino” ma rispecchiano sempre più il mondo degli adulti e risultano parecchio “adultizzanti”. Perché il puerocentrismo non sia sterile o insano bisogna “credere nel bambino” e “portare la voce dei bambini”, come si legge in “Pour chaque enfant, un avenir. Charte du Bureau International Catholique de l’Enfance”, dichiarazione elaborata e promossa nel giugno 2007 dal BICE (ONG sorta nel 1948), che rappresenta un’applicazione ed evoluzione della Convenzione di New York. “Credere nel bambino” significa dare fiducia, necessaria per l’autostima (per la costruzione del sé); “portare la voce dei bambini” significa dare ascolto, necessario per il dialogo (per il riconoscimento dell’altro). Fra i vari assunti significativi si legge pure: “Ogni bambino ci racconta a suo modo la bellezza e le ferite della vita e ci richiama così alla nostra responsabilità”. “Raccontare”, “richiamare”, “responsabilità” derivano tutti dal prefisso latino “re”, che indica un ritorno a uno stato precedente o un movimento all’indietro o qualcosa che si ripete di nuovo, circolarità che caratterizza una “relazione” (dal verbo latino “referre”, composto di “re” e “ferre”, “portare indietro”, “portare di nuovo”). Ebbene la vera centralità di ogni bambino si realizza proprio nella relazionalità, quelle “relazioni significative” di cui tanto si parla ma che poco si contribuisce a costruire.
[1] Dal risvolto di copertina di “Il figlio del desiderio. Una rivoluzione antropologica” di Marcel Gauchet, Milano, Vita & Pensiero, 2010. [2] Marcel Gauchet, “Un mondo disincantato? Tra laicismo e riflusso clericale”, Edizioni Dedalo, Bari, 2008, p. 160. [3] Gordon Neufeld e Gabor Maté, “I vostri figli hanno bisogno di voi”, Il leone verde Edizioni, Torino, 2009. |