Ichino: abolire il valore legale? intervista a Andrea Ichino, il Sussidiario 28.2012 La consultazione pubblica sul valore legale del titolo di studio è cominciata, e secondo dati del Miur, riportati ieri dal Corriere della Sera, avrebbe già fatto segnare più di 20mila partecipazioni. Il tema è difficile, se ne parla in Italia da 50 anni, almeno da quando Luigi Einaudi, in quella che Sabino Cassese ha chiamato la«filippica» del padre costituente, rivolse i suoi strali contro quella parificazione artificiosa tra riconoscimento della validità di un titolo di studio da parte dello Stato, e il valore «reale» agli occhi del mercato. Infatti, tra la medesima laurea conseguita presso atenei diversi, come tutti sanno, può esserci un abisso. Per poter accedere ad un concorso pubblico, però, i due titoli pari sono. Potere sovrano del famoso «pezzo di carta».
Che affrontare il dilemma non sia facile, lo sanno anche al
ministero di Francesco Profumo. Per inquadrarlo si sono affidati al
Servizio studi del Senato della Repubblica, che nel 2011 così ha
definito il nodo «valore legale»: «un istituto giuridico che va
“desunto dal complesso di disposizioni che ricollegano un qualche
effetto al conseguimento di un certo titolo scolastico o
accademico”». Detto questo, cari cittadini – sembrano dire al Miur –
armatevi di codice fiscale, rispondete alle domande e dite la
vostra.
La
nostra proposta mira a mettere gli studenti nelle condizioni di
scegliere: cosa che adesso possono fare in teoria, ma, in pratica,
solo con molte difficoltà e costi elevati . E questo per due motivi:
uno relativo alla domanda, l’altro relativo all’offerta. Il valore
legale che cosa fa? Attesta che una laurea conseguita a Catanzaro
equivale a quella ottenuta a Venezia piuttosto che a Torino. Se
questo fosse vero, che motivo ci sarebbe per scegliere tra
università diverse? Ora però potremmo essere all’ultimo atto perché, dopo un bel po’ di anni nei quali la certificazione era d’obbligo ma i modelli circolanti ad uso delle scuole – fatti di descrittori analitici che hanno suscitato tante diffidenze e grattacapi – erano per lo più guardati con il sospetto che si deve agli alieni, il ministero sta ultimando l’elaborazione di un nuovo modello nazionale, con annesse linee guida. IlSussidiario.net ne ha parlato con Carmela Palumbo, direttore generale del Miur per gli ordinamenti scolastici.
Certo. Infatti, opzioni identiche vanificano la necessità e i
benefici di una scelta. Ma se gli studenti sono indotti dallo Stato
a pensare che siano identiche, non hanno incentivo a scegliere e
quindi non mettono nemmeno in moto quella pressione concorrenziale
che dovrebbe spingere le università a miglorarsi. E questo va
soprattutto a danno delle famiglie meno abbienti, i cui figli sono
illusi dallo Stato riguardo alla reale qualità dei titoli che hanno
conseguito. Da questo punto di vista, meglio consentire alle
università di differenziarsi nell’offerta formativa, in piena
autonomia e con la possibilità di aumentare le tasse universitarie
per finanziarsi. E, al tempo stesso, offrire agli studenti prestiti
condizionati al reddito (attenzione: non prestiti tradizionali, ma
“borse di studio restituibili”, si vedano i dettagli nella nostra
proposta) che consentano loro di scegliere l’università che
ritengono migliore. Questa combinazione di proposte creerebbe le
condizioni per un’autentica possibilità di scelta.
C’entra eccome, perché lo Stato da un lato cerca di assicurare
un’impossibile uguaglianza degli atenei, e dall’altro induce gli
studenti, soprattutto quelli meno abbienti, a pensare che questa
uguaglianza esista davvero. Questa situazione genera un circolo
perverso che non stimola le università a migliorarsi al servizio
degli studenti e non stimola gli studenti a scegliere premiando le
università migliori e punendo quelle peggiori.
È
vero quando si dice che non c’è una legge precisa che istituisca il
valore legale de titolo di studio. Ma esiste un insieme di norme e
regolamenti con ricadute nella contrattazione aziendale e nelle
norme consuetudinarie, che portano gli italiani a pensare che i
titoli di studio non solo abbiano lo stesso valore, ma che anche
debbano averlo. Che una maturità a Palermo debba valere lo stesso
che una maturità a Milano; e perfino che la maturità ottenuta nella
sezione A del liceo tal dei tali debba valere come quella della
sezione B del medesimo liceo.
Perché gli italiani si sono convinti che lo Stato, in una visione a
mio avviso un po’ distorta delle pari opportunità, dovrebbe
garantire che i titoli abbiano per tutti lo stesso valore
indipendentemente da dove sono stati conseguiti. E questo come ho
detto è non solo impossibile, ma anche dannoso per il sistema,
perché riduce la concorrenza. E a ben guardare, è un po’ anche una
truffa da parte dello Stato ai danni degli studenti e degli utenti
della pubblica amministrazione, che è costretta ad assumere senza
badare alle differenze tra i titoli.
Vero: le aziende sanno quanto valgono
realmente i titoli e nel privato il problema è di molto inferiore.
Ma se lo Stato dà il messaggio che le lauree universitarie sono
tutte uguali, allora stiamo imbrogliando gli studenti. O i titoli
hanno realmente uguale valore – e allora sbaglia il mercato –,
oppure uguale valore non ce l’hanno affatto, e allora sbaglia lo
Stato dando ad essi lo stesso valore nei concorsi pubblici, e
facendo credere alle famiglie e agli studenti che frequentano
università di minor valore che la loro laurea valga quanto quelle
delle università migliori. Poiché non è così, dev’essere il mercato
a decidere, al meno al di sopra di una soglia minima.
L’abolizione del valore legale, in sè
e per sè non è e non può essere la soluzione di tutti i problemi
dell’istruzione in Italia. Bisogna affiancare all’abolizione del
valore legale anche una vera autonomia di scuole e università,
valutata dallo Stato che deve garantire gli standard minimi, e dal
mercato per tutto ciò che sta sopra il minimo.
Credo di no. Invece di inseguire
l’uniformità, potremmo benissimo pensare anche a scuole che offrano
un mix originale di materie e di metodi. Il tutto, ovviamente, entro
binari di riferimento stabiliti dallo Stato. Tanto più stretti
quanto più si scende nel livello di istruzione. Ci sono ottime
ragioni per avere scuole elementari molto uniformi e università
molto differenziate.
Sarebbe opportuno rimuovere questa
garanzia fittizia. Che però – si badi bene – non vuol dire il «far
west» educativo. Chi dice che se si abolisce il valore legale del
titolo occorre poi rassegnarsi a farsi curare da un medico senza
laurea, parla senza cognizione di causa e spaventa inutilmente i
cittadini. Allo Stato deve competere la certificazione su livelli
minimi: al di sopra dello standard, università e scuola facciano
come vogliono e saranno valutate dagli utenti e da chi assumerà i
loro studenti. Avanti allora con certificazione e accreditamento dei livelli minimi. A che punto siamo?
L’Anvur sta andando nella direzione
giusta. Credo che la strada dell’abolizione del valore legale al di
sopra dei livelli minimi di certificazione necessari debba essere
assolutamente percorsa, e richieda appunto ciò che l’Anvur sta
facendo per l’accreditamento. Rimane il fatto, però, che al di sopra
di questi livelli minimi non ci sono ancora margini di manovra
sufficienti: l’offerta formativa delle università è troppo
vincolata. I corsi opzionali di un corso di laurea ormai sono
pochissimi. È l’idea, ancora una volta, di uniformare per cercare di
garantire a tutti costi l’uguaglianza dei titoli. Le università
devono diventare maggiormente autonome nel definire la loro offerta
formativa, nell’assumere chi vogliono per insegnarla agli studenti e
nell’alzare le tasse per finanziarsi. E gli studenti, aiutati dai
prestiti condizionati al reddito ci diranno “con le loro gambe”
quali università hanno saputo offrire una proposta educativa davvero
efficace e credibile. Mi lascia perplesso: non so perché il governo abbia scelto questa strada. E soprattutto, che peso vorrà dare alle risposte. |