SCUOLA

Chi sono i veri perdenti nella
"guerra" tra l’inglese e l’italiano?

di Eugenio Gotti  il Sussidiario 14.5.2012

Quando, nei mesi scorsi, il Politecnico di Milano decise di attivare tutta la propria formazione magistrale e dottorale in lingua inglese a partire dal 2014 si crearono fronti di favorevoli e contrari, molte polemiche e molte posizioni in difesa dell’autarchia linguistica, come se fosse in gioco l’esistenza della lingua e cultura italiana di fronte all’imperialismo anglosassone.

In realtà la decisione avrebbe riguardato solo una realtà, quella del Politecnico di Milano, che già si colloca in un contesto di forte orientamento alla lingua inglese, con due corsi di laurea, undici corsi di laurea magistrale e trentuno corsi di dottorato interamente in lingua inglese. È evidente che le discipline tecniche e scientifiche tipiche di un politecnico parlano inglese già da molto tempo; diversa è la situazione delle università generaliste, dove le scienze umane, sociali, giuridiche, linguistiche, non sono orientate verso il monolinguismo inglese.

Non si tratta quindi di difendere la nostra lingua o cultura, che non sono messe in pericolo dalla lingua della comunità scientifica, ma di preoccuparci del posizionamento delle nostre università tecniche e scientifiche e del nostro sistema produttivo nel contesto internazionale di innovazione dei prossimi 20 o 30 anni.

La recente analisi dell’Ocse sull’alta formazione, pur riconoscendo alla Lombardia la leadership italiana nella ricerca e sviluppo – con il 30% del ricercatori del settore privato e 9mila laureati ogni anno in materia scientifiche in un ventaglio di più di 60 specializzazioni – indica le evoluzioni necessarie per il mantenimento della posizione nel confronto con i territori concorrenti a livello internazionale. Le vere sfide, infatti, non sono interne al Paese, ma nei confronti del mondo esterno. Secondo l’Ocse le università dovrebbero compiere maggiori sforzi per attirare talenti internazionali e mantenerli collegati al sistema di istruzione superiore. Lo sviluppo di una politica di internazionalizzazione globale per l’università richiede non solo lo scambio di studenti e del personale, la firma di accordi con le istituzioni paritetiche e la partecipazione a organizzazioni internazionali, ma anche il supporto all’attrazione di talenti e investimenti esteri diretti nella regione, introducendo una dimensione globale, internazionale ed interculturale nell’insegnamento, nella ricerca, nei servizi pubblici, e operando il collegamento tra le aziende locali con le reti globali.

Per fare ciò serve inoltre una elevata capacità di accoglienza, connessioni stabili con il sistema globale delle università, un’offerta formativa qualitativamente in linea con gli standard internazionali, e l’uso dell’inglese come lingua di riferimento, che è quindi elemento necessario seppur non sufficiente.

In questo contesto non stupisce che già oggi 21 atenei in Italia offrano 38 corsi di laurea specialistica e 189 dottorati in sola lingua inglese.

Non si tratta infatti di superare la lingua madre, ma di sviluppare quella lingua di comunicazione internazionale e della comunità scientifica che consenta ai laureati di rapportarsi con la comunità scientifica internazionale ed essere pronti ad agire sul mercato globale.

Perché la competitività delle università come del sistema produttivo dipende in larga parte dall’interconnessione di questi sistemi con l’esterno. Contestualmente il rafforzamento delle connessioni internazionali del sistema di alta formazione riveste un ruolo centrale per le connessioni internazionali dei territori, delle persone, delle aziende.

L’obiettivo di internazionalizzare le università e le città è un obiettivo strategico che dovrebbe essere condiviso da tutti. Il potenziamento dell’utilizzo della lingua internazionale è un passaggio obbligato, e se un’importante università decide di farlo in via esclusiva significa che sta scegliendo con chiarezza un posizionamento internazionale.

Da più parti si chiede gradualità. Al contrario penso che non ci si possa più permettere di chiedere a chi è pronto di restare in attesa che altri livelli, altre scuole, altri insegnanti lo siano. Anche i livelli scolastici pre-universitari sono pronti a dare il proprio contributo a questa sfida dell’internazionalizzazione, portando ad una vera “acquisizione” della lingua che non sia più mero “apprendimento scolastico”.

Vi sono molte scuole che già oggi portano in Italia laureati provenienti da università europee e statunitensi con il compito di svolgere attività di assistenti madrelingua per lo sviluppo della metodologia Clil, ovvero l’insegnamento delle discipline scientifiche in lingua straniera.

Sono attivi anche progetti tra scuole e università, tra cui il progetto “Highlight for Highschool” con il Mit di Boston, che ha la finalità di fornire risorse e sviluppare metodologie per migliorare l’apprendimento della scienza, della tecnologia e della matematica, attraverso la messa a disposizione dei programmi e delle lezioni di 1.800 dei suoi corsi.

Sono esperienze all’avanguardia ma non così rare, che aiutano il sistema scolastico ad innovarsi, supportando anche l’evoluzione della didattica e della professionalità dei docenti, sempre più sensibile alla crescente complessità – anche linguistica – dei processi di apprendimento.

Dall’altro lato ciò che è forse ancora più importante è il fatto che queste esperienze partano dal basso, dall’autonomia scolastica e che coinvolgono le reti di scuole, che giocano un ruolo importante per la diffusione dell’innovazione, la condivisione delle esperienze e delle risorse umane di qualità.

Ciò dimostra quanto la scuola oggi possa spingersi sul fronte dell’autonomia, mostrando inventiva, innovazione e capacità di dare risposta reale ai bisogni.