Scuola, tutte le ragioni
per bocciare i test Invalsi

di Marina Boscaino da MicroMega, 22.5.2012

Prendiamo la vicenda dei test Invalsi: un tema che sta tenendo banco da giorni sulla rete. Non pretenderò qui di entrare in dettagli tecnici, che lascio agli addetti ai lavori e che sono ampiamente trattati in interessanti interventi di tanti insegnanti. Il 9, l’11 e il 16 maggio sono state somministrate (a mo’ di medicinale) le prove Invalsi rispettivamente ad alcune classi della scuola elementare, media e superiore.

Cosa sono? “Sono prove oggettive standardizzate che hanno lo scopo principale di misurare i livelli di apprendimento raggiunti dagli studenti italiani relativamente ad alcuni aspetti di base di due ambiti fondamentali, la comprensione della lettura e la matematica, e di collocarli lungo una scala in grado di rappresentare tutti i risultati degli studenti, da quelli più bassi a quelli più alti. Una prova del genere contiene dunque sia domande complesse, alle quali è in grado di rispondere solo una piccola, o anche piccolissima, minoranza degli studenti, sia domande molto semplici, accessibili alla quasi totalità della popolazione studentesca”, si legge sul sito dell’Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema Educativo di Istruzione e di Formazione.

E allora perché ogni anno – in particolare negli ultimi due anni, da quando cioè le prove sono state surrettiziamente imposte agli studenti del II anno delle superiori – a maggio si scatena il dissenso di una parte del mondo della scuola? Alcuni sostengono: perché gli insegnanti, a parte brandire le proprie armi (i voti) in una condizione totalmente autoreferenziale, desiderano allontanare da sé tutto ciò che “puzza” di valutazione.

Ma questa interpretazione, oltre ad essere semplicistica, è troppo comoda. E consente al ministro Profumo – nonostante le promesse fatte in occasione del Forum su Repubblica.it, lo scorso dicembre, in cui tra i punti programmatici figurava l’ascolto del mondo della scuola – non solo di non interpellare, ma neanche di prestare distrattamente orecchio alle argomentazioni. E di continuare spedito sul cammino già tracciato da Gelmini. In occasione dell’erogazione dei test i Cobas hanno indetto uno sciopero. Sulle adesioni è lotta tra Miur e sindacato, i numeri sono imprecisi. Alcuni insegnanti si sono astenuti dalla somministrazione, altri sono stati neutralizzati da dirigenti scolastici compiacenti, che hanno organizzato orari tali che non hanno coinvolto i “dissidenti”, altri hanno partecipato, acquiescenti e basta, alcuni d’accordo, altri rassegnati.

La cornice

Misurare gli apprendimenti degli studenti dopo un triennio di risparmi sconsiderati, che hanno “fatto cassa” sulla scuola dello Stato per un ammontare di 8 miliardi di euro e di un taglio di 140mila posti di lavoro, tra docenti (80mila) e Ata, in un Paese in cui il tema della valutazione non è mai stato affrontato con un minimo di investimento e di consapevolezza scientifica, di studio e di progettazione culturale, è un po’ come passeggiare per Sarajevo cercando di coglierne la bellezza nel dicembre del ’95. Ancor peggio, se si considera che i test Invalsi sono stati agitati dal precedente governo (l’ideatore del “contenimento di spesa” nella scuola, di cui però l’attuale sembra essere il degno continuatore) come strumento indiretto di misurazione (e valutazione) della qualità dell’istituto e degli insegnanti che vi lavorano attraverso le competenze dei ragazzi.

Nel merito

L’impressione è che si tratti di un’operazione di maquillage in salsa pseudo-europea, che coglie la scuola del tutto impreparata, dal punto di vista sia delle risorse professionali da mettere in campo sia di quelle economiche. Qualcosa per marcare il territorio, dire: “presente!” solo per far numero, non per individuare una strategia culturalmente significativa. Solo che queste “prove tecniche di misurazione” hanno un proprio costo specifico, che potrebbe finire di gravare ulteriormente sui massacrati bilanci delle scuole. E gravano comunque su un bilancio dello Stato che, in un periodo di crisi come questo, non può permettersi di convogliare risorse su operazioni dalla dubbia riuscita. Sfatato dallo stesso Tremonti il mito della
lettera che ci chiedeva di intervenire sulle nostre scuole con i test Invalsi, sarebbe opportuno che Profumo prendesse in considerazione le argomentazioni avanzate contro quei test da chi nella scuola lavora quotidianamente. Dagli “esperti” (per una volta!), quegli insegnanti di cui si dice tanto male, ma che dovrebbero essere i più autorizzati ad esprimere pareri competenti su una questione tanto specialistica.

I test oggettivi standardizzati a risposta multipla possono misurare solo conoscenze. Viceversa l’Invalsi pretende di misurare competenze, cioè il “saper fare”, utilizzando pertanto uno strumento inadeguato. Una tale modalità di indagine peraltro è molto lontana dalle metodologie e dagli obiettivi praticati nelle nostre scuole. È una prospettiva non coerente con la nostra impostazione didattica, meno “meccanizzata”, basata sulla pluralità dei punti di vista e sinergia tra conoscenze, competenze e abilità, e con essi dei saperi analitico-critici complessi.

Insomma: si vanno a misure competenze che non sono centrali nell’impostazione dei percorsi formativi della scuola italiana. I test così come sono proposti, inoltre, realizzano una serie di istantanee; e non hanno lo stesso peso di una costante misurazione diacronica: punto di partenza, punti intermedi, punto di arrivo; solo così si potrebbero individuare strategie di interventi davvero efficaci. I test Invalsi, dunque, non determinano alcun vantaggio in sede didattica, vantaggio peraltro irraggiungibile attraverso la semplice somministrazione di prove. Né esistono particolari vantaggi dal punto di vista della ricerca didattica; che – nel momento in cui le prove fossero lo strumento che un ministero attento alle necessità della scuola e agli apprendimenti degli alunni, motivato ad organizzare ricerca, strutture, investimenti economici e culturali volti al tema della valutazione – verrebbe fortemente indirizzata dallo studio dei dati, aggregati e disaggregati. Non mi risulta però che – oltre ad interventi di “contenimento” di spesa – la scuola sia stata fatta oggetto (anche in seguito alle evidenze nei test nazionali e dei deludenti risultati in quelli internazionali) di alcun tipo di intervento migliorativo. Non abbiamo bisogno di prove Invalsi per individuare alcuni punti estremamente critici del nostro sistema scolastico. Su cui si continua a non intervenire.

A tutto ciò va aggiunta la comune percezione che operazioni pedestri e punitive – promesse o concretizzate – del passato hanno indotto negli insegnanti: grazie all’accostamento che – soprattutto il precedente governo – ha indebitamente operato tra misurazione degli apprendimenti e valutazione degli istituti scolastici (tutti i progetti di valutazione delle scuole, e anche degli insegnanti, consideravano i risultati agli Invalsi come indicatore di efficacia) il sospetto della scuola nei confronti dell’operazione non è incomprensibile. Né peregrina è l’ipotesi che scorciatoie simili possano essere assunte in ossequio alla merito-valuto-premiomania imperante da qualche anno a questa parte. Senza riflessione, senza studio, senza elaborazione.

Aggiungiamo che Invalsi significa business: basti pensare allo zelo di alcune case editrici che – senza un minino di riflessione e di confronto con il mondo della scuola – hanno provveduto affannosamente alla compilazione di sezioni dedicate alle prove Invalsi come nuova fonte di appeal, confidando nell’acquiescenza acritica di una parte degli insegnanti e propagandando un’obbligatorietà che formalmente non ha alcun fondamento. Il rischio reale è che – senza la necessaria preparazione – si ibridi ulteriormente la didattica, da una parte continuando a seguire l’impostazione tradizionale, dall’altra volendo insistere nell’imposizione di test, senza riflettere sulle condizioni e sulle strategie attraverso le quali si fa oggi scuola in Italia. Un bricolage pericoloso, che potrebbe avere, tra i vari effetti, un ulteriore abbassamento dei livelli.

“Valore aggiunto”

C’è poi un problema macroscopico: il dislivello tra le prestazioni di aree differenti del Paese. Si pensa davvero (e in buona fede) che una scuola nuova e migliore possa nascere da test omologanti da Trento a Caltanissetta, da Crotone a Sondrio? So che don Milani in questo periodo non va di moda. Ma è sempre attuale la sua frase: “Non c’è ingiustizia peggiore che fare parti uguali tra diseguali“. E, a proposito: ho sentito con le mie orecchie una collaboratrice dell’Invalsi affermare che l’erogazione di prove identiche a tutti gli alunni del secondo anno di ogni segmento dell’istruzione superiore sarebbe un segno di democrazia. Le parole hanno davvero perso la loro significatività: non c’è democrazia nel dislivello abissale tra istruzione liceale e professionale, testimoniata da livelli di apprendimento e di dispersione estremamente disomogenei. E nemmeno nel fatto che il segmento più debole – l’istruzione professionale, in cui confluisce la maggior parte di svantaggiati socialmente, di migranti, di diversamente abili – sia il settore meno tutelato dalla “riforma” Gelmini.

Problemi giuridici

“L'art. 51 del D.L. n.5/12 ha previsto: “le istituzioni scolastiche partecipano, come attività ordinaria di istituto, alle rilevazioni nazionali riguardanti degli apprendimenti degli studenti (…)”. Si tratta di una disposizione formulata in modo ambiguo, ma che certamente non afferma l’obbligatorietà dei docenti a svolgere tale specifica attività a prescindere dalle delibere dei Collegi, né, tanto meno, l’obbligo dei collegi dei docenti di deliberarle. Poiché l’anno scorso era stato a lungo dibattuto proprio di obbligatorietà e la questione si è riproposta anche quest’ anno, se il legislatore avesse voluto stabilire l’obbligatorietà delle prove INVALSI, avrebbe potuto affermarla esplicitamente. Il legislatore si è invece limitato a qualificare dette prove come attività ordinaria di istituto; si tratta in sostanza di una norma attributiva di una competenza alle istituzioni scolastiche; il problema dell'obbligatorietà della partecipazione dei docenti a dette prove non è quindi risolto da tale disposizione”: così l’avvocato Mauceri. Inoltre, la partecipazione alle prove Invalsi deve essere votata dal collegio dei docenti, cosa che in molte scuole non è avvenuta. È singolare che un ministro che si dice sostenitore dell’“autonomia responsabile”, pratichi un’autonomia dimezzata: al vertice del sistema non c'è un organismo espressione dell’autonomia, ma il Ministro, espressione della maggioranza pro-tempore e della cultura che quella maggioranza esprime e che – attraverso provvedimenti – configura incursioni su materie di competenza dei singoli istituti scolastici, mortificando al contempo la libertà di insegnamento, sancita dall’art. 33 della Costituzione.

Varie ed eventuali

In questa situazione arrivano notizie inquietanti. I più realisti del re – dirigenti dal piglio brunettiano e dalla irrisoria flessibilità mentale – hanno dato vita ad una irragionevole gara di provvedimenti contro gli studenti che hanno boicottato i test. I test Invalsi escludono gli alunni disabili, come racconta Patrizia Ercoli: potrebbero “inquinare” la misurazione del risultato. Ma la nostra non è una scuola inclusiva? Un ulteriore problema è determinato dalle modalità di compensazione di chi correggerà i test. E poi: il 41% degli studenti ammette di aver copiato. Leggete questa interessantissima lettera al Manifesto di una studentessa di un liceo classico romano: rallegratevi per la coscienza civica di alcuni nostri ragazzi e traete le vostre conclusioni sui comportamenti si alcuni insegnanti. Ce n’è per tutti i gusti. E abbastanza per porsi alcuni problemi.

Non impariamo dall’esperienza

Come suggerisce Anna Angelucci, ha scritto cose che invece fanno riflettere Diane Ravitch (ordinaria di Scienze dell’Educazione alla N.Y.U., di Storia dell’Educazione alla Columbia University, collaboratrice di Bush e Clinton, responsabile dell’ufficio di ricerca e sviluppo del Dipartimento dell’Educazione, sotto la presidenza di Bush, uno dei membri fondatori della Koret Task Force presso la Stanford University, che supporta le riforme dell’istruzione americana basate sul principio dell’accountability). Dopo che nel 2009 si è polemicamente dimessa dall’incarico, ha pubblicato “The death and the life of the great american school system: how testing and choice are undermining education”:

“Se vogliamo migliorare l’istruzione, dobbiamo prima di tutto avere una visione di cosa sia una buona istruzione […..] Chiunque abbia a che fare con l’istruzione dei ragazzi deve chiedersi perché noi educhiamo. In che cosa consiste una persona ben istruita? Quali conoscenze deve aver conseguito? Cosa ci aspettiamo quando mandiamo i nostri figli a scuola? Cosa vogliamo che loro imparino e conquistino durante la loro permanenza a scuola fino al diploma? Certamente noi vogliamo che imparino a leggere, a scrivere e a far di conto. Queste sono le abilità di base su cui poggiano tutti gli altri apprendimenti. Ma non è tutto. Noi vogliamo prepararli ad una vita sensata. Noi vogliamo che siano in grado di pensare con la propria testa quando sono nel mondo da soli. Noi vogliamo che abbiano una bella personalità e che sappiano prendere decisioni sulla loro vita, il loro lavoro, la loro salute. Noi vogliamo che affrontino le gioie e le difficoltà della vita con coraggio e con humour. Noi speriamo che essi siano gentili e compassionevoli nei loro comportamenti con gli altri. Noi vogliamo che abbiano il senso della giustizia e della bellezza. Noi vogliamo che capiscano la loro nazione e il mondo e le sfide che abbiamo di fronte. Noi vogliamo che siano cittadini attivi e responsabili, preparati a formulare proposte con attenzione, ad ascoltare differenti punti di vista e a prendere decisioni razionalmente. Noi vogliamo che loro imparino scienze e matematica per capire i problemi della vita moderna e partecipare alla ricerca delle soluzioni. Noi vogliamo che essi apprezzino il patrimonio artistico e culturale della nostra e delle altre società. Ognuno di noi potrebbe allungare sempre di più la lista dei risultati sperati, ma un punto deve essere chiaro. Se questi sono i nostri obiettivi, l’attuale, angusta focalizzazione sul nostro regime nazionale di test non è sufficiente per raggiungere nessuno di essi”.

Noi, invece, entrati con 20 anni di ritardo nel circuito, riproponiamo entusiasticamente modelli che altri hanno sperimentato e scartato. Senza scomodare premialità, merito, valutazione degli insegnanti – le insidie emerse dalla strategia Brunetta, ciclo della performance incluso, tanto più pericolose perché legate a criteri di valutazione fluttuanti o arbitrari – ci sono tanti argomenti per riflettere. E motivazioni significative per ritenere valido il dissenso di chi ha detto no. Fronti aperti di problematiche alle quali Profumo non ha nemmeno ritenuto doveroso rivolgere qualche pensiero, naturalmente con il consueto piglio garbato e sobrio.