Scuola malata, è ora Dall'esperienza di don Milani a quelle delle troppe periferie d'oggi l'attenzione a chi ha più bisogno non si risolve soltanto in maggiore equità, ma indica vie innovative all’azione pedagogica Marco Rossi Doria La Stampa, 3.5.2012 Eravamo nel pieno del boom economico e tutto sembrava finalmente andare per il meglio. Quando, nel 1967, uscì Lettera a una professoressa e arrivò in ogni angolo d’Italia il monito, severo e profetico, di don Milani: «la scuola ha un solo problema: i ragazzi che perde». In quel libro c’erano i dati che mostravano che la classe sociale dei genitori determinava il successo o l’insuccesso scolastico, in larghissima misura. Quel monito ci sta ancora addosso. Perché è ancora oggi così. Sono i figli dei poveri a fallire a scuola. E sono tanti: il 20% del totale. Che tende a diventare il 30% e più nel Sud come nelle periferie del Centro e del Nord. Lo dicono i dati del ministero dell’Istruzione, quelli Istat, la Banca d’Italia, la relazione della Commissione indagine sulla povertà. Lo mostra, pezzo per pezzo, il bellissimo Atlante dell’infanzia a rischio , curato da Save the children ricordandoci che mentre nella maggior parte d’Europa il figlio di un genitore di medio reddito e istruito ha 2 o 3 volte più probabilità di completare l’intero ciclo di studi, da noi ha 7,7 più probabilità! Il più grande scandalo d’Italia. Così, è passato quasi mezzo secolo. Ma resta questo il principale problema non solo della scuola ma dell’intera società italiana. Dobbiamo riuscire a dare di più a chi parte con meno nella vita e la scuola va ancora ben sostenuta perché non vi è altro luogo che possa essere leva precoce di emancipazione e riequilibrio sociale. Per questo l’Unione Europea dal 2000 - la famosa agenda di Lisbona ci chiede di scendere sotto il 10% di fallimento formativo. E la questione è che noi non ci siamo ancora riusciti. Benché siamo ben consapevoli che il non riuscirci, oltre a essere una minaccia alla coesione sociale, ci priva di enormi risorse umane capaci di azioni positive, un fatto che condiziona la stessa crescita economica. Perciò: l’agenda politica, le scelte nella revisione delle spese e degli investimenti pubblici deve tenere conto innanzitutto di questa questione. Ma più che i dati, come spesso accade, le vie da imboccare per riparare alle ingiustizie generali le descrivono bene i libri che parlano di gesti, di giorni, di vicende umane. Nelle bellissime pagine di Insegnare al principe di Danimarca (Sellerio) la molto compianta Carla Melazzini racconta del lungo nostro lavoro con i ragazzi che avevano abbandonato la scuola a S. Giovanni a Teduccio, Barra, Quartieri Spagnoli, Soccavo, Ponticelli. È una scrittura sorvegliata, severa - come Carla era - che mostra, con fatica e poesia, il lavoro della scuola che sa andare verso chi ne è stato escluso. Lavoro di grande complessità artigianale, fatto a Napoli eppure simile a quello svolto da altri insegnanti e educatori a Torino, a Verona, a Palermo, a Reggio Emilia, a Milano. Il creare un luogo salvo, una zona franca, una chance. Dove curare - nel bel mezzo delle devastazioni - le ferite sociali ed emotive. Per restituire la guida adulta, la via dell’apprendimento, della motivazione, della cura di sé. Per ridare «la capacità di aspirare», come viene definita in un importante saggio di Arjun Appadurai ( Le aspirazioni nutrono la democrazia, Et al. Edizioni). Sono pagine difficili quelle di Carla Melazzini. Perché chiedono di ritornare a pensare alle persone che crescono. Perché chiamano l’intero sistema d’istruzione e formazione a rimettere insieme i pezzi, a coniugare meglio il sapere e il saper fare. E a misurarsi molto di più con l’essere quotidiano di ciascun ragazzo. Com’era a Barbiana, dove nell’aula di sopra c’erano i libri, le figure geometriche e le mappe, nell’aula di sotto gli arnesi per costruire e manutenere oggetti e il laboratorio di esplorazione scientifica e in ogni momento la possibilità di fermarsi e «parlare di noi», di quel che sta succedendo e di come va, senza mai dimenticare che si sta lì per imparare. Quattro anni prima dell’uscita di Lettera a una professoressa, Adele Corradi salì a Barbiana. Ora finalmente lo racconta nel libro Non so se don Lorenzo (Feltrinelli). Era il 29 settembre 1963. Oggi decide di lasciare indietro la sua riservatezza e ci riporta proprio lì. Con un avvertimento: «Non si racconta in questo libro la storia di don Milani…. Si parla di lui, ma non se ne racconta la storia. Chi la volesse conoscere dovrà rivolgersi altrove…. Qui sono messi a fuoco frammenti di vita, frammenti sparsi, affiorati alla memoria col disordine dei ricordi». Adele ricorda il giorno dell’inizio, domenica, S. Michele. Ma non ricorda che lezione avesse tenuto. Rammenta, però, che don Lorenzo, in modo per lui inconsueto, le disse: «Ritorni». E lei si è da allora sempre chiesta perché: «.. o gliel’ha suggerito lo Spirito Santo o io con la telepatia». Così, dopo qualche giorno ritornò. E partecipò alla prima vera lezione, un esercizio di scrittura collettiva. E di lì si va avanti nel racconto, scena dopo scena, con i gesti e il parlato riportati entro un interrogarsi profondo e semplice. Perché questo libro rimette ogni lettore nel ritmo e nella parola di quel luogo, nel suo senso quotidiano. E così Adele ci fa un regalo immenso: toglie il peso del mito a Barbiana. E finalmente restituisce quella scena alla magica imperfezione delle persone al lavoro, che tentano, che riparano, che si chiedono, che litigano, che non sanno e che comunque riescono. Ritrovare l’occasione e il modo di fare bene scuola provando a capire il proprio tempo e il mondo è sempre possibile. E rimettersi in gioco è la chiave dell’educare. Come ci dice ancora Adele, oggi quasi novantenne: «Sono stata insegnante di lettere alle medie fino alla pensione a 67 anni. Devo confessare che ero un’insegnante identica alla destinataria di Lettera a una professoressa … L’incontro con la scuola di Barbiana ha scavato un solco nella mia vita. Mi sono vista come non mi ero mai vista. E non solo come insegnante, ma come persona». Dunque, la vicenda di Barbiana e delle buone scuole delle nostre troppe periferie non è solo un’azione a sostegno dell’equità e a vantaggio di una società democratica. Ma permette trasformazioni. E ci dice la direzione da prendere per tutta la scuola. Perché l’azione pedagogica diretta a chi ha più bisogno spesso muta gli approcci profondi e sa indicare vie innovative. La necessità fa virtù. Perciò don Milani diceva: «Verrà un giorno in cui coloro che vogliono guarire le scuole malate dovranno salire a Barbiana». È ora di ripartire da una scuola a tutto tondo, che integri studio, esperienza, riflessione ben organizzata sul mondo e sul sé. E che consenta di riportare anche tutta la meraviglia del sapere diffuso dai nuovi media entro l’azione composita e costante di un luogo accogliente e rigoroso. Un luogo salvo e innovato. |