Come si fa a studiare in maggio? Valerio Capasa il Sussidiario 18.5.2012 Quando torna maggio, la voglia di studiare diminuisce. E nelle aule scolastiche, ma anche fuori, si aggirano parole stanche, pesantezze accumulate, fretta di smettere. C’è il mare che chiama, e non siamo certo tutti Leopardi: si sa, quel musone buttò a mare la sua adolescenza con «sette anni di studio matto e disperatissimo» (che poi, permettetemi: che male c’è, per chi nasce con un talento poetico, a dedicare tutte le sue giornate a quel talento? Qualcuno si fa forse problema se Messi ha dedicato la sua intera adolescenza a un pallone?). Comunque, per chi non è nato col talento dello studio, a maggio c’è il mondo che chiama come non mai, e lo studio può attendere: rimandato a settembre. A me sembra, tuttavia, che esista una prospettiva di studio e di vita molto più interessante, che maggio stesso ci invita a scoprire urgentemente. Lasciamo che a proporcela sia proprio Leopardi. Ricordate A Silvia? «Era il maggio odoroso», appunto, e «le vie dintorno» risuonavano del «canto» di Silvia, della sua voce «assai contenta / di quel vago avvenir che in mente avevi». E cosa faceva l’adolescente Leopardi? Smetteva di studiare e si affacciava al balcone per sentirla cantare:
Guardava il mare, e le solite strade non erano più solite: erano «dorate» per il sole di maggio e per la voce di Silvia. Come può una «lingua mortal» riuscire a dire i «pensieri» e le «speranze» che succedevano nel cuore di quel ragazzo innamorato? In questi versi si nasconde, a mio parere, il segreto dello studio. Cosa serve, per esempio, per comprendere A Silvia? Fare un’analisi del testo oppure affacciarsi al balcone, e magari scendere per strada, passando sotto la finestra della ragazza di cui siamo innamorati? Come ci si potrebbe accostare ai versi leopardiani se ci mancasse l’esperienza di un amore di maggio, che ci riempie il cuore e le strade di promessa? Continuare a pensare che la vita e i libri non c’entrano niente, che serve un ultimo sforzo e poi saremo liberi, è il modo subdolo per non essere mai noi stessi in quello che facciamo, per non porgere gli orecchi al suono né dei poeti che ci tocca studiare né soprattutto della nostra Silvia. Urge invece paragonare la propria vita con le parole che leggiamo, partendo dall’ipotesi che fra quei due mondi possa aprirsi un dialogo. Del resto, solo questa prospettiva non tradisce l’origine di A Silvia, che non è nata fra quattro mura ma affacciandosi alla finestra, non fu scritta da un uomo chino sui libri ma da uno che smise di studiare. Paradossalmente, perciò, in questo periodo stringere i denti e non andarsene in giro per concentrarsi sullo studio non farebbe che alimenterebbe il dualismo. Si tratta, invece, di andare in giro davvero, di affacciarsi alla finestra davvero, di amare davvero. Solo chi si alza dalla sedia può sentire Leopardi come un amico, da inondare di domande: come mai per me le strade sono solo strade e per te invece sono piene di Silvia? come mai per me maggio è solo l’ultimo spazio di apnea prima delle vacanze e per te la promessa della natura? Proviamo, una sera di maggio, a guardare il cielo stellato: non traboccheranno dal nostro cuore le stesse domande del Pastore errante dell’Asia? Luigi Giussani descriveva lo studio con un’immagine molto leopardiana: «Studere: quando un ragazzo pensa alla sua ragazza, oppure quando un ragazzo dagli spalti della scuola tira il collo per vedere la sua ragazza che è entrata in aula, distraendosi dal professore perché ogni tanto la guarda, questo si potrebbe tradurre in latino con la parola studere: è l’essere attirato dall’essere». «Attirato dall’essere»: studiare consiste in questa attrazione, come una ricerca su un vocabolario di latino svelerebbe con estrema sorpresa. Il sostantivo studium significa infatti «desiderio, ardore, passione, amore, cura, zelo, attaccamento, occupazione prediletta, inclinazione, gusto»: come siamo arrivati a sentire che lo studio coincide esattamente con il contrario di queste parole? Oserei dire: studiando troppo, affacciandoci poco, tradendo insomma il metodo di Leopardi. «Noi studiamo troppo, per poetare». Nel saggio sul fanciullino, Pascoli è stato chiarissimo: «mettiamo lo studio ove non c’entra», perché «lo studio deve essere diretto a togliere più che ad aggiungere: a togliere la tanta ruggine che il tempo ha depositata sulla nostra anima, in modo che torniamo a specchiarci nella limpidezza di prima». È l’esperienza semplice della poesia, che Ovidio, all’inizio del secondo libro dei suoi Amores, coglieva splendidamente: «via da qui, state lontano, voi moralisti! / Non siete la platea adatta per ritmi dolci. / Mi legga una ragazza appassionata (“non frigida virgo”) che desidera il suo fidanzato, / e l’adolescente grezzo (“rudis puer”) toccato dall’amore che non conosce (“ignoto tactus amore”); / e uno di questi ragazzi, ferito anche lui dall’arco che ha ferito me, / apprenda i segni rivelatori della sua fiamma, / e dica, dopo lungo stupore: “informato da quale spia / questo poeta ha messo nei versi suoi i fatti miei?”». Dai versi dei grandi poeti grondano i «casus meos», e infatti non c’è bisogno di nessuna precondizione perché ciascuno possa scoprire che «le sudate carte» sono anche «studi leggiadri»: chi ama i luoghi reali, così belli in questo mese, non si perde nei luoghi comuni, e ama la poesia chi ama la vita, chi sorprende quell’attrazione per l’essere che gli passa dentro il cuore e che «lingua mortal non dice». |