Puniti gli insegnanti che insegnano dal blog di Giorgio Israel, 10.5.2012 Il Periódico di Andorra informa che una docente della Scuola spagnola dell’infanzia del Principato è stata cacciata per aver insegnato a leggere e a far di conto ai suoi alunni. L’imputazione a suo carico è che bambini di 4 e 5 anni sappiano già leggere, fare somme e sottrazioni e stiano perfino apprendendo a scrivere (il che in India e in molti paesi asiatici è un obbligo). I genitori dei bambini hanno fatto ricorso all’ambasciata spagnola sostenendo che in Spagna sono richiesti minimi educativi ma non è definito alcun massimo. Un ispettore ha respinto il ricorso, confermando la cacciata dell’insegnante. Le si è generosamente concesso di completare il corso di quest’anno a condizione di abbassare il livello dell’insegnamento… Sarebbe un grave errore accantonare questa vicenda come un episodio folkloristico. Essa è la logica conseguenza di un andazzo che va avanti da anni in gran parte dell’occidente e che mira a trasformare la scuola in una “comunità di apprendimento-intrattenimento” in cui gli insegnanti sono ridotti a “facilitatori”, a fornitori di un servizio di supporto nel quadro di un variegato complesso di attività in cui l’insegnamento disciplinare è l’ultimo degli obbiettivi (se pure lo è) e in cui il primo degli obbiettivi è lo svago e attenersi a standard minimi senza stancare. Non a caso si è aperta da noi la discussione se diminuire o sopprimere i compiti a casa, sull’onda di un’iniziativa di genitori francesi che, stressati dallo stress dei figli, hanno proclamato che i compiti “fanno male” e impediscono le “attività alternative”. Questo dibattito ha messo in luce la schizofrenia di proclamare come valore assoluto l’“autonomia” scolastica e poi voler definire per decreto se e quanti compiti vanno dati, sottraendo all’insegnante un aspetto importante della sua libertà educativa. Ma questo è niente a fronte dei discorsi surreali sull’insegnamento “capovolto”: niente spiegazioni in classe, si studia a casa con videoregistrazioni e su internet (meglio se in gruppo) e poi a scuola l’insegnante si limita a facilitare l’applicazione delle conoscenze trasformandole in “competenze”. È la scuola vista come “web community” in cui tutto viene costruito “dal basso” con materiali e metodi “accattivanti”. Sembra che da noi tutto ciò piaccia molto al ministro Profumo. Il ministro Fornero si lamenta che i nostri giovani non sappiano leggere, scrivere e far di conto: farebbe bene a rivolgersi al collega di governo. Nell’orgia della trasformazione della scuola del sapere in quella del “saper fare”, dell’insegnante nel senso di Hannah Arendt – «che si qualifica per conoscere il mondo e istruire altri in proposito, mentre è autorevole in quanto, di quel mondo, si assume la responsabilità» – non resta nulla. Certo, gli insegnanti non sono tutti santi e impeccabili. Ma non si ripete di volerli sempre più qualificare, esaltare la loro funzione, restituirle dignità? Il modo corretto per farlo sarebbe di trasformarli in dipendenti di terz’ordine doppiamente subordinati al dirigismo ministeriale e alle idiosincrasie dell’“utente”? È proprio quel che propone la legge sull’autogoverno delle istituzioni scolastiche recentemente approvata dalla commissione istruzione della Camera. Essa è centrata sull’idea di trasformare le scuole in istituzioni “autonome” e legate al territorio, come se questo fosse di per sé un toccasana. Ma l’unica autonomia che questa legge non garantisce, o piuttosto annulla, è quella degli insegnanti. La scuola sarebbe gestita da un consiglio dell’autonomia presieduto da un genitore – scelta bizzarra visto che la componente genitoriale è la più transeunte di tutte. Il consiglio prevede una presenza paritetica di genitori e insegnanti, con l’aggiunta di rappresentanti di «realtà» culturali, sociali, produttive, professionali e dei servizi nonché degli studenti (per le scuole superiori) e quindi mette i docenti in minoranza. Alla funzione docente si riserva la «piena libertà» di programmare e attuare l’attività didattica, ma di fatto la si toglie, subordinandola da un lato alle direttive ministeriali (alle indicazioni, agli standard nazionali, alla certificazione delle competenze e alle innumerevoli prescrizioni) e dall’altro a interessi particolari, in quanto deve attenersi «alle linee educative e culturali della scuola» da negoziare con genitori, studenti e le famose “realtà”. Se già la scuola è ridotta a un emporio di attività frammentate è facile immaginare a cosa verrebbe ridotta da questa legge trasversale, frutto di due debolezze politiche che, sorreggendosi a vicenda come due zoppi, hanno realizzato il capolavoro di accoppiare una visione aziendalista con una demagogia assembleare, in salsa di costruttivismo. Se questi sono i capolavori che riescono a partorire le forze politiche allora non c’è da stupirsi se il paese è in mano alla tecnocrazia e al ribellismo protestatario. |