Alle insegnanti e agli insegnanti di scuola primaria
che intendono somministrare e correggere i test INVALSI

Anno scolastico 2011-2012

Bruna Sferra ReteScuole, 1.5.2012

Quest’anno sono in quinta e tra pochi giorni i miei alunni dovrebbero essere sottoposti alle prove Invalsi. Io assumerò la stessa decisione già presa quando una mia classe è stata coinvolta nelle prove: dichiarerò di non essere disponibile a collaborare alla somministrazione e correzione dei test, in base all’ art.3 del DPR 275/99 che prevede il riconoscimento delle diverse opzioni metodologiche, anche di gruppi minoritari di insegnanti.

I motivi della mia contrarietà alle prove Invalsi sono molteplici: la loro decontestualizzazione, il non tener conto delle diversità intellettive degli alunni e delle scelte programmatiche e metodologiche degli insegnanti, la pretesa oggettività valutativa di queste prove, la premialità per i docenti e per le scuole che vi soggiace, ecc.

Su questi temi è stato detto tanto, mi vorrei quindi soffermare sul fenomeno, ormai consueto, provocato dall’introduzione dei test Invalsi nella scuola pubblica italiana: la preparazione degli alunni agli stessi.

Qualunque Piano dell’Offerta Formativa di qualsiasi scuola di certo enfatizza l’importanza della didattica centrata sull’alunno, attenta ai diversi contesti sociali e familiari, costruita su percorsi adeguati alle varie esigenze formative. In quello della mia scuola, il 49° Circolo Didattico “Principe di Piemonte”, per esempio, viene detto: “l’elaborazione del curricolo, della progettazione educativa e didattica e della programmazione delle attività didattiche di aula del nostro Circolo, si occupa non solo di cosa insegnare, ma anche e soprattutto del come e del perché. […] Dobbiamo formare competenze da utilizzare in contesti diversi per la risoluzione dei problemi nella vita e porre, pertanto, ciascun alunno nella condizione di poter valorizzare pienamente le proprie potenzialità e capacità”.

Ma se andiamo a dare un’occhiata anche alle Indicazioni Nazionali per il Piano di Studi Personalizzato (Moratti) e alle Indicazioni per il curricolo (Fioroni) che le scuole dovrebbero armonizzare (Gelmini) (personalmente i Programmi a cui faccio riferimento sono sempre quelli del 1985, ma questa è un’altra storia…), possiamo rispettivamente leggere:

- “non bisogna cadere nell’equivoco di impostare e condurre le attività didattiche con gli allievi quasi fossero in una pretesa corrispondenza biunivoca con ciascun obiettivo specifico di apprendimento. L’insegnamento, in questo caso, infatti, diventerebbe una forzatura non accettabile. Al posto di essere frutto del giudizio e della responsabilità professionale necessari per progettare in situazione gli obiettivi formativi personalizzati e le relative Unità di Apprendimento a partire dagli obiettivi specifici di apprendimento nazionali, ridurrebbe l’attività didattica ad una astratta ed universale esecuzione applicativa degli obiettivi specifici di apprendimento stessi. Inoltre, la trasformerebbe in una ossessiva e meccanica successione di esercizi/verifiche che toglierebbe ogni respiro educativo e culturale all’esperienza scolastica, oltre che autonomia alla professione docente”;

- “La definizione e la realizzazione delle strategie educative e didattiche devono sempre tener conto della singolarità e complessità di ogni persona, della sua articolata identità, delle sue aspirazioni, capacità e delle sue fragilità, nelle varie fasi di sviluppo e di formazione. Lo studente è posto al centro dell’azione educativa in tutti i suoi aspetti: cognitivi, affettivi, relazionali, corporei, estetici, etici, spirituali, religiosi. In questa prospettiva, i docenti dovranno pensare e realizzare i loro progetti educativi e didattici non per individui astratti, ma per persone che vivono qui e ora, che sollevano precise domande esistenziali, che vanno alla ricerca di orizzonti di significato”.

Credo che chi intende somministrare le prove Invalsi, così come chi non lo farà, sia mosso da vari motivi che vanno dal “è giusto che le scuole e gli insegnanti siano valutati” , al “è la legge lo dice e tutti lo fanno”, al “e se non le faccio che può succedermi?”. La maggior parte di questi docenti pensa anche: ” se i bambini dovranno fare queste prove è meglio prepararli, per loro e per me”. Ed è così che molte ore, distribuite nei giorni, nelle settimane e, persino, nei mesi scolastici sono dedicate alle “crocette”, con conseguente sospensione delle modalità didattiche fatte di strategie, di perseguimento di obiettivi programmati, di attenzione ai ritmi e alle capacità d’apprendimento delle bambini e dei bambini. E visto che le prove Invalsi arrivano belle e pronte, sarà meglio far acquistare ai genitori i libri ad hoc offerti a valanghe dalle varie case editoriali scolastiche (che affare!) o, nella migliore delle ipotesi, fotocopiare tutto il fotocopiabile utile al proposito.

Ed è su questo affannamento ad adeguarsi che si entra in contraddizione con le stesse motivazioni che spingono ad accettare le prove. Su cosa verterà la valutazione delle scuole e degli insegnanti, su un modello didattico avulso dalle norme che regolano la scuola stessa? Se è la legge che le prevede, non dovrebbero essere da perseguire anche le finalità delle Indicazioni o del POF? E se un qualche superiore avesse qualcosa da ridire su modalità didattiche non in linea con le metodologie programmate, cosa succederebbe agli insegnanti che le adottano?

Di certo delle prove standardizzate non possono considerarsi come una sorta di esercizio per la finalità insita in esse, cioè un mero “allenamento” ai test Invalsi. Inoltre, altra cosa è la valutazione del percorso formativo dell’alunno che è parte del processo di insegnamento-apprendimento in cui qualsiasi prova va costruita sulle attività didattiche svolte. Per questo preparare i bambini ai test Invalsi si profila come un’interruzione delle attività didattiche curricolari, pone infatti in atto qualcosa di estraneo ad esse.

E’ sotto gli occhi di tutti, perfino dei non addetti ai lavori, il cambiamento delle metodologie didattiche che da innovative e sperimentali, fondate sulla cooperazione e sull’esperienza, su istanze pedagogiche e psicologiche stanno diventando pratiche didattiche che pensavamo di esserci lasciati alle spalle, sempre più trasmissive e tradizionali, in cui il rapporto tra insegnante ed alunno sta tornando ad assumere un carattere di tipo “verticale”.

Ritengo che, insieme alla cancellazione delle compresenze, all’attacco al Tempo Pieno, alla reintroduzione dei voti in decimi, le prove Invalsi e l’”allenamento” ad esse siano tra le principali cause della dequalificazione della scuola elementare pubblica statale.


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Bruna Sferra,
  
Insegnante – 49° Circolo Didattico “Principe di Piemonte” Roma