Chi ha paura dei test Invalsi?
(a proposito di scuola)

di  Luca Dinida Vanity Fair, 11.5.2012

Il francese era la lingua che avevo studiato più a lungo. Era anche la lingua che avevo approfondito, dopo la maturità, perché pensavo che sarebbe stata quella a darmi una possibilità di ammissione alla Scuola Interpreti che volevo fortissimamente frequentare. Non osavo sperare che sarebbe bastata la mia conoscenza della lingua inglese, quella che amavo (di gran lunga) di più.

Quando telefonai alla segreteria e seppi che invece ero stato ammesso proprio con la mia prima scelta, l’inglese, feci parecchi salti di felicità, e poche domande. Ero così contento che feci poche domande anche quando, qualche mese più tardi, fu la volta di decidere della seconda e terza lingua. Avevo già abbandonato l’ostico tedesco – mia amata ma complicata frequentazione del liceo – per il meno ostico spagnolo, e la terza lingua facoltativa ci stava tutta.

Provai appunto a praticare, come terza lingua opzionale, il francese. Mi successe quello che altre volte, già al liceo, era successo. Diedi alla professoressa, Monique Politi, la sensazione di quello che se ne frega. La mia timidezza venne presa per poca passione, il furbo vocabolario di altri – quelli che avevano fatto i licei linguistici giusti, quelli che sapevano come si diceva “donna delle pulizie” – scambiato per maggiore competenza. A loro venne abbuonato il primo anno di francese, io invece dovetti ricominciare da capo come il più novellino dei principianti.

Alla prima seria prova di scrittura, scrissi una composizione che un principiante mai avrebbe saputo mettere insieme. Me ne resi conto, mi incazzai. Monique Politi, che comunque era una professoressa di rara onestà, mi chiese scusa. Ma a quel punto non volevo più perdonarla. Soprattutto quando scoprii, quasi per caso, che l’esame di ammissione lo avevo superato anche in francese, e quindi abbuonarmi il primo anno sarebbe stato il minimo sindacale.

* * *

Leggo che i test Invalsi, ormai impiegati nella scuola italiana a tutti i livelli, a molti non piacciono: «La somministrazione dei test verrà operata utilizzando i docenti come semplici impiegati, senza che alcuna norma contrattuale lo preveda», accusa Gilda; «Non valutano le buone esperienze educative prodotte nelle classi né fanno emergere i limiti della scuola italiana», sottolinea l’Unione degli studenti; le prove rischiano di discriminare chi ha diverse abilità e problemi di apprendimento, rilevano gli insegnanti di sostegno.

Da studente, qualche esperienza istruttiva l’ho vissuta. Da genitore, ho passato qualche fine settimana sottoponendo mio figlio a una sperimentazione casalinga dei test Invalsi, e penso di avere qualcosa da dire. Primo, vorrei chiedere a Gilda: se gli insegnanti non debbono garantire una valutazione omogenea degli studenti, che cosa esattamente debbono fare? Secondo, vorrei chiedere agli studenti: come si fa a mettere in evidenza le «buone esperienze educative» senza denunciare quelle cattive? Terzo, vorrei chiedere agli insegnanti di sostegno: quando mai il sistema educativo italiano ha consentito di NON discriminare «chi ha diverse abilità e problemi di apprendimento»?

Accetterei la critica ai test Invalsi se accadessero – accadessero per legge, sistematicamente, non a causa della buona volontà del singolo – le seguenti cose: 1. lo studente meno portato a imparare a pappagallo il programma, ma più portato a capire quello che sta dicendo, viene non dico favorito, ma almeno non sfavorito – anche se dà sui nervi perché è sveglio e «potrebbe dare di più»; 2. nella correzione della verifica scritta lo studente che «dà sui nervi» non si ritrova, a parità di risposte e di esecuzione, a prendere 1-2 voti in meno rispetto al compagno che più furbamente ha imparato a non dare sui nervi – perché il voto di condotta esiste, a quello serve, e forse non è giusto che venga replicato per incidere anche sul voto da rendimento; 3. il voto in una prova è semplicemente legato a come la prova è stata svolta, e non all’umore dell’insegnante, alla simpatia che prova verso l’alunno, alla severità della scuola e della sezione.

Non penso sia bello ridurre tutto al sistema americano del test standardizzato, che uccide l’individualità. Ma è forse bello ridurre tutto al sistema italiano dove spesso, per prendere un voto alto, devi essere abbastanza fortunato da aver scelto la scuola giusta, la sezione giusta, l’atteggiamento giusto? Non è sensato avere almeno una parte del voto di fine anno determinata da test dove l’esito è condizionato matematicamente solo dalle tue risposte, e non dalla scuola/sezione che hai avuto la fortuna/sfortuna di scegliere, e non dalla simpatia/antipatia che l’insegnante prova per te?