Risé: non è parlando di legalità intervista di Federico Ferraù a Claudio Risé il Sussidiario 24.5.2012
Ieri un gruppi di allieve della scuola Morvillo Falcone di Brindisi
era a Palermo, nell’anniversario della strage di Capaci. Sempre a
Palermo è arrivata ieri la nave della legalità, salpata da
Civitavecchia con a bordo il ministro Profumo e 1.500 ragazzi. Ad
attenderli hanno trovato il Capo dello Stato, Giorgio Napolitano,
anch’egli a Palermo per ricordare Falcone e Borsellino. La memoria
dei fatti di sangue del ’92 e il dramma di un attentato che ha
riempito l’Italia di sdegno hanno unito tutti nella convinzione che
la vita civile è possibile solo se non viene meno il rispetto della
legge. La scuola cosa deve fare? «Il parlare molto di legge non
aiuta la legge», avverte Claudio Risé.
È
normale che questo avvenga quando la legge è spesso violata e la
sicurezza delle persone è minacciata. La vicenda di Brindisi ha dato
un rilievo drammatico a questa necessità, perché ad essere attaccati
sono stati i nostri corpi, la nostra integrità e dunque la nostra
stessa esistenza. Quando le persone si sentono così minacciate,
aumenta la richiesta di legge. E il bisogno di sicurezza si traduce
anche in un bisogno di legalità.
Direi che prima di tutto si impara dall’esempio delle persone.
Quando una classe dirigente dà un esempio costante di rispetto della
legalità, questo costituisce un grande insegnamento. E poi vengono
coloro che svolgono l’attività di giudicare: i giudici, con il loro
comportamento innanzitutto pubblico cioè amministrando la legge con
equità ed imparzialità, e con il loro comportamento privato. Essi
sono grandi, potenziali testimoni della legge. Di grande importanza
inoltre le figure educative: il padre e la madre giusti,
l’insegnante giusto.
La prima legge da rispettare è quella in cui consiste la natura
delle cose. Da questa, si passa alla legge scritta nei codici e
quindi amministrata da un preciso apparato di giustizia. È evidente
che chi svolge questo compito di interesse pubblico, lo fa bene
nella misura in cui è «figlio» di quella prima esperienza.
Farei una premessa: il parlare molto di legge non aiuta la legge,
come il fare molte norme non porta assolutamente a uno sviluppo
della legalità. Anzi la mette in pericolo, perché aumenta a
dismisura la possibilità di violazione delle norme, diminuendo
proporzionalmente il senso di legalità nel cittadino: cioè la
responsabilità della persona nell’assoggettarsi alla legge,
cominciando da
sé, dall'essere giusto.
Perché oggi le persone delegano sempre di più allo Stato qualcosa di
cui dovrebbero essere amministratori in prima persona; non
evidentemente il fare giustizia, ma sviluppare il proprio senso
della legalità, e delle responsabilità che ne conseguono.
Sviluppare il senso personale, interiore, profondo, della giustizia.
La legge non si dovrebbe imparare a scuola ma in famiglia, là dove
avviene la prima educazione all’ordine delle cose. È qui, come
abbiamo detto, la radice interiore della legalità. Dopo di questo
viene l'ambito culturale e socio-culturale. Poiché dal codice
napoleonico in poi nel continente europeo le leggi sono aumentate a
dismisura, è d’obbligo svolgere un’opera di discernimento − con la
critica, l’esempio e l’esercizio − su tutto l’apparato statuale che
presiede alla giustizia, se non altro perché non la danneggi
gravemente.
Assolutamente no. Intendiamoci: conoscere la Costituzione è una
buona cosa, ma è illusorio − dove non è deleterio − pensare che sia
un insegnamento disciplinare ad essere centrale nello sviluppo
personale del rispetto della giustizia. Se viene meno quest’ultimo,
cosa ce ne faremo dell’erudizione giuridica?
È
un pensiero profondissimo, che va al cuore della nostra
conversazione. Esprime una grande stima della vita e la interpreta
come vocazione. Dimostra che la nozione di legalità precede ogni
struttura di amministrazione legale. È questo che occorre fare:
ridare spazio alla vita. Verso persone che hanno fatto una grande
esperienza di morte e dunque di negazione della vita, come è
accaduto alle compagne di Melissa, occorre prestare innanzitutto
amore e ascolto, per ricostituire quello spazio.
In casi come questo, in cui c’è stato un forte trauma (più forte e
devastante, ma non sostanzialmente diverso dalle nevrosi da cui è
affetto il paziente dello psicoterapeuta), occorre restituire alla
vita l’ambito pieno e concreto della sua espressione, delle sue
molteplici forme e manifestazioni. La nevrosi richiude la vita,
restringe il suo spazio espressivo. Là dove si attenta all’integrità
fisica della persona, questo lavoro di restituzione alla vita può
rivelarsi più radicale, ma nella sua essenza si tratta della
medesima cosa. Ogni impostazione ideologica, per esempio, riduce lo
spazio della vita, costringendola dentro uno schema. La vita invece
richiede spazi di libertà, quindi di responsabilità personale (come
ricordava la studentessa nella sua lettera) per essere amata ed
accolta: spazi di ascolto e spazi espressivi. Solo così la persona
può tornare a stare bene. Ridare spazio alla libertà, in modo che la vita si manifesti attraverso l’esercizio concreto delle scelte personali. Educare è rendere consapevole la persona di questa possibilità e − appunto − dello spazio necessario alla sua realizzazione. |