Politiche educative

Politiche educative ed economiche:
il problema dell’equità

Negli ultimi trenta anni le differenze tra reddito dei ricchi e reddito dei poveri si sono enormemente accresciute nella maggior parte dei paesi OCSE. Che cosa può fare l’educazione per recuperare questo divario?

di Vittoria Gallina*, da Education 2.0, 5.5.2012

Il quarto focus (aprile 2012) prodotto dall’OCSE come riflessione sui dati di “Education at a glance 2011” e sulle ultime indagini disponibili pone questo problema: la grande ineguaglianza dei redditi nel mondo globale e il contributo che l’educazione può dare per contenerla e ridurla.

Il tema quindi è equità ed educazione; il focus parte da una costatazione: negli ultimi trenta anni il gap, il divario tra reddito dei ricchi e reddito dei poveri si è enormemente accresciuto nella maggior parte dei paesi OCSE; da qui pone una domanda di fronte a questa situazione: cosa può fare l’educazione? In questo lasso di tempo non solo è aumentato il divario tra redditi, ma a questo si è accompagnata in genere una scarsa mobilità del “reddito tra generazioni”, per dirla in termini semplici, non solo il gap aumenta, ma le generazioni riproducono, ampliandole e proiettandole nel futuro, le differenze iniziali. È chiaro che la ineguaglianza di redditi è un problema molto complesso che va affrontato da molti punti di vista e attraverso interventi politici diversificati, ma le politiche educative, soprattutto quelle che appaiono capaci di dedicare attenzione al tema della eguaglianza, sembrano essere uno strumento efficace per garantire una maggiore equità nelle opportunità formative e una maggiore equità nella distribuzione dei redditi, anche in periodi non buoni dal punto di vista economico.

(Fonte: D’Addio, “Social mobility in OECD countries: evidence and policy”, OECD 2008; Growing unequal?)


I paesi che evidenziano il gap più ampio tra redditi elevati e redditi bassi sono quelli che hanno la minore mobilità tra generazioni (i figli continuano a restare entro la categoria dei redditi molto bassi dei genitori), all’opposto, i paesi in cui il gap è contenuto sono quelli che hanno una maggiore mobilità tra generazioni (il destino economico dei figli è molto meno dipendente dalla condizione economica negativa dei genitori). Le molte indagini sviluppate dall’OCSE, ma non solo, dimostrano la forte correlazione tra titoli di studio, competenze effettivamente possedute dalle diverse popolazioni e collocazioni occupazionali, che garantiscono livelli elevati di reddito e/o, per soggetti in transizione dall’ educazione al lavoro, una maggiore probabilità di trovare occupazioni remunerative. Qui entrano quindi in gioco i sistemi formativi. La lettura dei dati PISA 2009, sviluppata da “Education at a glance 2011”, mette in evidenza la categoria dei “resilient students”, studenti resilienti. Il concetto di resilienza appartiene agli studi di meccanica, le prove di resilienza sono infatti applicate a materiali/strumenti che devono resistere a urti o altre sollecitazioni. Nell’ambito delle scienze umane, in generale anche in Italia, il termine è poco usato, salvo che in contesti riferiti, in particolare, a situazioni di handicap. “In sociologia e in psicologia, resilienza indica la forza umana, anzi la ‘fortezza’, di reagire ad eventi traumatici … intesa come capacità determinata di rimuovere gli ostacoli e di superare le difficoltà contingenti per andare avanti con ottimismo consapevole”. La definizione, contenuta in “Speranza e resilienza: cinque strategie psicoterapeutiche” (Milton H. Erickson; Short Dan, Casula Consuelo, Franco Angeli 2004) può essere quindi così indicata: “capacità di rimanere sia flessibili che forti attraverso le ambiguità e i cambiamenti”.

Chi sono gli studenti che Pisa 2009 individua come “resilienti”? Sono studenti quindicenni che, sulla base del questionario socio-economico, risultano socialmente svantaggiati (reddito familiare, condizione occupazionale dei genitori, titolo dei studio di questi ecc.) e che, tuttavia, si collocano nei livelli di competenza più elevati, raggiungendo punteggi molto superiori alla media OCSE. Si tratta quindi di gruppi di giovani che, già da oggi, hanno la capacità di resistere a condizioni date e a innescare meccanismi di cambiamento di status tra generazioni.

Proprio i risultati di Pisa 2009, relativi alla misurazione dei livelli di comprensione di testi scritti, intesa come capacità di raccogliere e produrre informazione, evidenzia che i paesi che hanno i risultati migliori (Canada, Finlandia, Korea, Giappone), sono anche quelli che hanno quote elevate di giovani resilienti a differenza di paesi (Italia o Usa per esempio) in cui questo non accade. Cosa hanno in comune questi paesi, che riescono a contenere l’effetto del disagio socio economico sui risultati di apprendimento dei giovani? In genere hanno politiche che puntano a garantire una educazione di livello elevato a tutti gli studenti e riducono la varianza dei risultati attraverso una distribuzione equitativa di opportunità e risorse. Per fare qualche esempio, in Giappone e Corea dirigenti e docenti vengono spesso ri-assegnati a scuole diverse, per garantire una eguale distribuzione di professionalità particolarmente efficaci. In Finlandia l’accesso alla professione docente è molto selettivo e, temporaneamente, docenti specializzati possono essere assegnati laddove il rischio del drop-out è più elevato. In Canada si provvede con maggiori risorse , con insegnamenti di supporto, con allargamento delle opportunità, in presenza di bisogni specifici, che possono variare in tempi e luoghi (studenti immigrati, giovani in difficoltà nella transizione al lavoro ecc.)

Nulla a che vedere con le politiche italiane di interventi a pioggia o peggio con politiche di tagli lineari, che rispecchiano spesso la stessa logica.

Non si tratta di rispolverare vuote ideologie che invocano meritocrazia prive di sostanza o egualitarismi pietistici, ma di interpretare necessità e di intervenire con risorse in forme oculatamente selettive: potrebbe essere questa la logica ispiratrice di azioni di spending review nella scuola italiana, o si pretende troppo? In questa prospettiva appare sempre più cruciale il ruolo di un sistema efficace e condiviso di valutazione dei risultati degli apprendimenti scolastici nel nostro paese. Il sistema Invalsi sicuramente dovrà continuamente costruire e ricostruire ricerca adeguata a interpretare processi, ma anche a suggerire osservazioni utili alle scuole per guardarsi e cambiarsi. È stata pubblicata da poco tempo una bella riflessione di Giorgio Bolondi (“Invalsi: l’italiano manda in crisi anche la matematica”) che, a partire dalle analisi compiute da Invalsi sui temi di italiano degli studenti della maturità 2010, guarda più avanti, ragiona sulle capacità logico argomentative che gli studenti italiani non padroneggiano per difficoltà nel trattare linguaggi specialistici e non, nel produrre e selezionare informazioni ecc., e conclude con una osservazione che è un compiuto programma di lavoro: “È proprio su questo che bisogna lavorare, magari (magari!) persino parlandone con il collega di italiano”. Se non vogliamo perdere il treno come paese, ma soprattutto se non vogliamo condannare i nostri giovani a perpetuare e accentuare condizioni di immobilità inter-generazionale, il tema del legame tra ricerca, valutazione e pratiche professionali dovrà uscire dalla retorica e divenire un terreno vero di scelte di politica educativa.

 

* Vittoria Gallina
Esperta di Educazione in età adulta e di processi di lifelong learning; responsabile italiana delle ricerche comparative dell’OCSE-IALS (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico; International Adult Literacy Survey) e OCSE-ALL (Adult Literacy and Lifeskills); autrice di studi e saggi sui temi dell’analfabetismo e dell’illetteratismo; svolge attività di docenza presso l’ università e in corsi di formazione.