Ultimi giorni, buone ragioni Paolo Ravazzano il Sussidiario 31.5.2012 L’ultima parte di un anno scolastico è un tempo magico. Ne hanno parlato Valerio Capasa e Rosario Mazzeo, sapendo evocare la multiformità del significato di un tale impegno, poiché solo un significato vivo è in grado di sostenere un impegno non occasionale. Il tempo scolastico non è un flusso omogeneo e solo per pochi è una continua progressiva ascesi: per i più è un susseguirsi di fasi scandite da arresti, tempi morti, rincorse affannose, ritardi sofferti o deliberatamente ricercati. Ciò si intreccia col vissuto di ciascun ragazzo, che tanta scuola tende, più o meno volontariamente, a discreditare come non significativo, preso in considerazione solo quando sembra essere di intralcio alla carriera scolastica dell’allievo. Non sarebbe interessante, anzi per certi aspetti necessario, ripensare l’azione e il significato della scuola nei suoi possibili nessi (e non nella sua separatezza) con le azioni e i significati della vita concreta? Certamente il tempo scolastico è ancor più segnato dalla struttura stessa dei suoi percorsi “oggettivi”, scanditi da un inizio, che segue alle lunga pausa delle vacanze estive, dalle cadenze tri-, quadri- o semestrali segnate da lezioni, interrogazioni, pagelline e pagelle, che si mescolano tra loro con diverse proporzioni nei diversi momenti. E finalmente una fine tanto agognata quanto temuta, ricca di tensioni ma, in ultima analisi, per tutti liberatoria. Questi tempi differenti, in particolare quelli che avvicinano ad una delle scadenze che scandiscono l’anno (fine trimestre, fine anno) sono a volte rivitalizzanti e spesso rivelatori di aspetti dello studente, in genere positivi e rimasti fino ad allora accuratamente nascosti. “Tardi, troppo tardi”, sospirano i professori, “eccoli a fare lo sprint finale, come se si potesse recuperare chissà cosa in venti giorni...”. Facile, troppo facile denigrare questa corsa di varia umanità. Una legge di Murphy ci ricorda che nella vita reale “se non ci fosse l’ultimo momento, non si riuscirebbe a fare niente”. Così sono fatti gli animi umani e sbaglia chi pensa che la scuola sia un luogo il cui significato si fondi sul gusto del “sapere per il sapere”, quasi fosse il principale e unico motore dello studiare: esistono altre motivazioni, come l’utile, la necessità, il vivere assieme a coetanei, ecc. e non onorarle almeno un poco significa non capire la vita e non saper farne tesoro. Anche il tempo scolastico, i suoi ritmi, le sue scadenze, sono vissuti da ciascuno a partire da una pluralità di motivazioni personali, diversamente gerarchizzate e hanno qualcosa da insegnarci. La scuola perciò sbaglia quando tratta con supponenza tutto ciò che non ha direttamente e formalmente a che fare con l’apprendimento formalizzato. Tempi di sprint. Ma anche, a volte tempi morti, perché il significato sfugge. A scuola sfugge spesso perché viene escluso a priori o indicato in modo formalistico. Perseguire un nesso significativo tra il percorso scolastico e le circostanze concrete della vita deve diventare compito comune, da fronti diversi, della scuola − comunicato poi da ogni insegnante − e degli allievi: “La prima condizione perché le ‘cose’ che insegniamo siano sensate è dunque che siano determinate, selezionate e ordinate da qualcosa di oggettivo, di riconoscibile cioè al di fuori, anzi prima, delle categorie su cui si articola la scuola, da un ‘pezzo’ di realtà riconosciuto (ancorché in modo rozzo) ‘utile’ dall’allievo perché significativo per la sua crescita umana, culturale e sociale”, è stato scritto su queste pagine. Dunque, a maggio ... giusto correre? Riprovevole rallentare? Nella vita come nella scuola, può accadere che uno capisca solo all’ultimo che per farcela basta “darsi una mossa”, come può accadere che uno che ha lavorato bene capisca che “ormai è fatta” e si goda il lusso di riposarsi in anticipo. Sono giudizi concreti: è difficile, anzi rischioso generalizzare. La voglia di studiare... a giugno non si ottiene per decreto. Senza una vera “testimonianza di sapere”, non c’è voglia “amica” dello studio, come ci ricorda Rosario Mazzeo. La voglia di studiare “non accade né per magia (neppure quella delle più sofisticate tecnologie e strategie didattiche) né per costrizione fiscale. Avviene, invece, in un contesto educativo in cui ci sia una proposta chiara e concreta negli obiettivi, operativa nei contenuti e nei tempi, decisa nei toni, trasparente nelle ragioni, coinvolgente e tenace nelle attività. È il contesto dell’educare istruendo, dove lo studente non è un ‘contribuente vessato’, ma un protagonista educato anche dallo studio e nello studio a vivere da uomo libero, forte e lieto”. In concreto tutti i discorsi, più che pertinenti, sulla libertà, sulla cultura, sull’autenticità devono però confrontarsi con lo statuto giuridico della scuola statale italiana (cioè del 95% delle scuole primarie, secondarie di primo e di secondo grado), da sempre parte dell’amministrazione pubblica; il che risulta un fattore fortemente condizionante anche verso l’esercizio dei compiti educativi e di istruzione. Giugno invita all’estate, a guardare fuori dalla finestra dell’aula, a ricercare spazi aperti, luminosi, esterni. Per la sua origine e la sua attuale collocazione istituzionale, per la rigidità ideologica con cui viene rivendicata in via esclusiva la sua funzione di “decondizionamento” culturale e sociale di tutto questo “là-fuori”, la scuola coltiva in realtà un concetto un po’ pessimistico: solo lei è la fornace alchemica in cui la materia bruta presente nel “là-fuori” acquista valore. Ma là fuori... da un po’ di tempo avvengono anche molte cose nuove e strane: dalla rivoluzione informatica al web, dall’imparare attraverso il lavoro (pensiamo al mondo della formazione professionale) all’apprendimento di una lingua straniera attraverso un’esperienza di vita o di lavoro all’estero, ecc. e tutto questo rivela come i processi formativi non formali e informali (extrascolastici) stiano acquisendo sempre più importanza, e portino con sé risultati, domande e provocazioni urgenti per tutti, scuola compresa. Un significato vivo e partecipabile non uscirà da corsi di aggiornamento né da modelli precostituiti: finché la scuola non lascerà davvero che tutti questi aspetti e fattori del contesto possano interagire direttamente con lei, esso sarà piuttosto una formula o una dichiarazione di intenti o una pretesa soffocante. Neppure le follie di maggio e di giugno, tra tempi rallentati e rincorse polivalenti, ci facciano dimenticare quanto sia faticoso studiare “senza un significato”, ma che cosa tutto questo c’entri con la scuola ha a che fare con un dibattito pubblico che l’Italia civile e politica non riesce a far (ri)partire. Chi saprà rilanciarlo? |