Tremila euro per diventare
(forse) insegnanti

di Andrea Pomella  Il Fatto Quotidiano, 30.5.2012

Gramsci scriveva: “La cultura è organizzazione, disciplina del proprio io interiore; è presa di possesso della propria personalità, e conquista di coscienza superiore, per la quale si riesce a comprendere il proprio valore storico, la propria funzione nella vita, i propri diritti, i propri doveri”. In una società funzionale e moderna il compito di instillare nei più giovani “coscienza superiore” e aiutarli a “comprendere il proprio valore storico” è demandato agli insegnanti. Il punto è che in Italia per diventare insegnanti, e quindi per assolvere al compito gravoso cui faceva riferimento Gramsci, bisogna avere da parte un bel po’ di soldi. Perché? Il perché lo sanno tutti quei docenti precari che in questi giorni sono alle prese con un acronimo da brividi: TFA, che sta per Tirocinio Formativo Attivo.

Cos’è il TFA? Un tempo la formazione degli insegnanti passava attraverso le SSIS, le Scuole di Specializzazione per l’Insegnamento Secondario. Oggi questa formazione è stata affidata alle Università che devono bandire ogni anno un concorso pubblico per detentori di titolo di studio. Il concorso dà accesso a un corso, il TFA appunto, di durata annuale, che si articola in un percorso di esami e di ore di lezione in classe che non prevede retribuzione, né alcuna forma di rimborso spese per gli aspiranti insegnanti.

Va notato che tra gli “aspiranti” insegnanti c’è anche chi insegna di fatto (senza abilitazione) da anni, firmando e certificando atti e documenti, persone che dovranno sostenere insieme ai neolaureati, i test di ammissione al TFA (questo è uno dei punti più controversi della questione in quanto il ministro dell’Istruzione Francesco Profumo ha prima dichiarato che gli insegnanti che avessero almeno tre anni di insegnamento non avrebbero dovuto sostenere prove preselettive, salvo poi essere smentito da una nota apparsa ieri sul sito del Miur in cui si rimanda il tutto alla programmazione 2012/2013).

E questo è niente. Il nocciolo del problema è quando si va a dare un’occhiata ai costi d’iscrizione al concorso, che variano da regione a regione. L’accesso al test preliminare oscilla fra i 100 e i 130 euro (per classe di concorso, cioè un docente di lettere classiche, per esempio, che ha la possibilità di concorrere a 4 classi, dovrà sborsare 400 euro solo per il test preselettivo), e siamo nell’ambito delle spese di segreteria che più o meno riguardano la partecipazione a tutti i concorsi pubblici in Italia. La mannaia si abbatte nel momento in cui i futuri insegnanti devono perfezionare l’iscrizione ai corsi, lì si va dai 2000 euro richiesti dall’Università di Bergamo agli oltre 3000 dell’Aquila, Perugia e Trento (qui l’elenco completo per ogni singola università), ossia i costi di un vero e proprio master.

Ora, consideriamo che questo salasso va a ricadere, a rigor di logica, su persone disoccupate o – nei casi migliori – precari della scuola, cittadini insomma alle prese con la questione primaria e quotidiana della sopravvivenza, quello che mi domando è, al di là delle questioni di merito, è normale che lo Stato, tanto più in un momento delicato come questo, faccia cassa sfruttando un’emergenza, come quella del lavoro, e rifacendosi su una delle fasce più deboli e già sfiancate dalla crisi economica e sociale di questi anni?

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Del resto così siamo certi di ottenere alcuni risultati imprescindibili:

1) Garantire agli alunni con disabilità l’attenzione di docenti che non hanno scelto di esercitare l’insegnamento di sostegno, ma sono costretti a riciclarsi per restare sulla piazza

2) Garantire a quei giovani docenti che hanno studiato e si sono formati per l’insegnamento di sostegno di restare a casa a fare i disoccupati colti

3) Garantire la minima inclusione degli alunni con disabilità ai quali riversiamo con orgoglio una sorta di avanzo casuale diviso per materia curriculare che ovviamente esclude del tutto la libertà di scelta.

Si è già scritto molto a questo proposito, ma nulla è cambiato. Già ad oggi a mio parere la maggior parte degli insegnanti di sostegno non è adeguatamente formata sulle disabilità gravissime, figuriamoci con un corso on line impartito per restare a galla cosa potremo ottenere.

A mio giudizio per alcune patologie è carente a monte l’ipotesi dell’insegnante di sostegno. La figura dovrebbe essere più specifica e cucita su misura. O continueremo ad avere insegnanti di sostegno con grande necessità di sostegno perché non sanno da dove iniziare. E di certo non è colpa loro!

Tanto è che se faccio l’elenco dei cambiamenti che sto vivendo attraverso Diletta emerge solo che lo Stato Sociale è sempre più affievolito, che troppe famiglie (inclusa la sottoscritta) rimangono schiacciate dalle corse, le guerre e le fatiche e non riescono più ad avere il tempo neanche per combattere.

A settembre, unificheremo i plessi grazie alla Gelmini con un bel caos di dirigenti e segreterie nomadi da un plesso all’altro. Pensiamo alla gestione delle disabilità. Pensiamo alle ore di sostegno che vengono assegnate sul plesso in “ movimento”.

Gli Assistenti Educativi Culturali sono rimasti a dieta e oramai sono tutti ben in forma. Essi non mangiano più i pasti con gli alunni che vengono aiutati o nutriti a seconda dalle situazioni da operatori resi distanti nella logica del risparmio dei pasti. Qualcuno ha mai verificato quanto pane, parmigiano, olio, pasta, e generi alimentari vengono sottratti dalle mense? Ma li non c’è disabilità quindi si può fare finta di nulla e anzi, si favorisce la dispersione delle cibarie aumentando la mensa da 40 a 80 euro al mese.

Anche le gite rimangono ancora a buona decenza del corpo docente perché la normativa di riferimento non impone ma consiglia. E quindi io ( e come me tantissimi altri) per mandare Diletta al campo scuola tre giorni ho dovuto scrivere lettere rassicuranti, assumermi responsabilità, scendere a patti con chiunque e spendere 50 euro di albergo in più perché due ore di riposo gambe di Diletta sono state conteggiate come un giorno di uso della camera. Con grande garbo degli albergatori che hanno affermato di non essere una casa di cura …

E altro giro altra corsa : tra poco finisce la scuola e giustamente noi madri declassate a serie “ Z 1000” non possiamo lavorare, né produrre: dobbiamo stare a casa a litigare con spiagge lagher o inaccessibili, con il caldo torrido e le piaghe, con le piscine e il peso da sollevare per un bagno, con costumi da 150 euro per poter scendere perché servono anti decubito.

E siamo fortunate se possiamo nonostante tutto permetterci di farlo.

C’è chi sta in arresto in case piene di barriere, senza soldi neanche per mangiare e passeggia di notte con la cedola IMU in mano. Perché la casa è casa, anche se è l’unica risorsa di chi cura il proprio figlio e usa la risorsa per non gravare sullo Stato.

Lo Stato ringrazia e aumenta la tassa a dispetto di milioni di euro buttati in privilegi che concede ai privilegiati all’interno della cosca dei finti colti al comando. Eppure anzi che sentirmi stanca sento energia che si trasforma al mio interno, sento voglia di lotta. Sento che il Paese Italia deve cambiare e credo che grazie a chi si soffre cambierà in meglio per tutti.

Dal 9 giugno, ultimo giorno di scuola terrò un diario della nostra vita. Mi piacerebbe che altri genitori nella mia situazione lo facessero. E vorrei far valutare da un economista quanto risparmia lo Stato grazie alle fatiche di tante madri e di tanti padri. Chissà se questo servirà a far capire a qualcuno che il peso sociale è la politica e non il cittadino?