Autonomia e reclutamento dei docenti

di Gian Carlo Sacchi Educazione & Scuola 24.5.2012

Il dibattito politico sull’assunzione dei docenti è tornato a farsi rovente non tanto dalla peraltro solo promessa del ministro Profumo di bandire nuovi concorsi che in qualche modo confliggerebbero con le aspettative di tanti precari, ma dall’introduzione della variabile territoriale, altrimenti detta chiamata diretta, da parte della Regione Lombardia e Provincia autonoma di Trento, che oltre ad avere diverse prerogative giuridiche, quest’ultima infatti ha già un reclutamento regolato a livello territoriale, ha anche diverse maggioranze politiche.

Si potrebbe dire che come per la proposta di legge sull’autogoverno delle istituzioni scolastiche questo sia un altro campo in cui operare in modo bipartisan, il che sarebbe ben accetto se si rispettassero le norme costituzionali, senza voler anteporre prerogative localistiche (nati o residenti nella regione) che non solo violerebbero le pari opportunità, ma non risolverebbero il problema della reale copertura dei posti, come dimostrano le graduatorie esaurite in diverse parti d’Italia.

Il problema vero invece è quello dell’ingresso nella scuola di giovani insegnanti, i nostri infatti sono tra i più vecchi d’Europa e tendono ad avanzare ulteriormente negli anni per effetto della recente riforma pensionistica, e che sempre a causa del precariato sono rimasti senza effettive opportunità.

Il mix di età e merito preoccupano la qualità del nostro sistema e viste le trattative infinite che si susseguono a livello nazionale, qualcuno anche in relazione agli spazi ipotizzati dalla riforma costituzionale, confermati da un’autorevole giurisprudenza, inizia ad intravvedere la possibilità di intervenire in modo autonomo, suscitando da un lato potreste sul piano politico e sindacale e dall’altro il rischio di grandi migrazioni di disoccupati con laurea (e diversi altri titoli accademici) che da tutto il Paese si muovono verso la possibilità di ottenere un posto di lavoro.

Sul decentramento delle procedure di assunzione c’è un certo consenso, ma l’input deve rimanere a livello nazionale o si possono liberalizzare al fine di rendere più funzionale l’organizzazione delle risorse umane al progetto didattico nel territorio.

E’ ovvio che se davvero si vuole l’autonomia delle scuole al punto da prevederne “statuti” e regolamenti particolari rimane difficile sostenere che la politica del personale non debba assumere la necessaria flessibilità. Il principio autonomistico sembra assodato, ma se questo possa generare anche modalità diversificate di reclutamento del personale dirigente e docente trova ancora posizioni controverse trasversali alle tradizionali maggioranze politiche e riserve in campo sindacale, anche se c’è da chiedersi se si vuole valorizzare davvero la contrattazione a livello di istituto (RSU) senza che questo abbia reali poteri decisionali.

E’ sotto gli occhi di tutti che creare margini di manovra nei curricoli senza la possibilità di adeguati interventi sul fronte professionale, come ad esempio è in atto nel riordino degli istituti tecnici e professionali, fa permanere una rigidità nel governo della scuola ormai decisamente anacronistica; dall’altra parte ricerche svolte sul fronte dei docenti dimostrano che non esistono contrarietà in linea di principio ad un reclutamento decentrato, ma il timore (anche se non è poca cosa) del clientelismo e della corruzione, oltre a porre il problema degli interventi necessari su coloro che non si dimostrano adatti al ruolo.

 

LA DISCUSSIONE NON E’ NUOVA

Una commissione ministeriale che ha lavorato nel 1996 sul “sistema integrato” di istruzione statale e non statale, sancito poi con la legge del 2000, aveva già posto in maniera efficace il problema del reclutamento del personale nella struttura scolastica pubblica, secondo due principi: l’attitudine allo svolgimento di un servizio nazionale e la coerenza con il progetto specifico dell’istituto.

La commissione concluse con una posizione di maggioranza (D’Amore, Guasti, Reguzzoni, Capaldi, G. Rodano), basata sui seguenti punti:

- l’assunzione degli insegnanti risponderà alle necessità imposte dalla nuova organizzazione basata sull’autonomia delle istituzioni scolastiche,

- il reclutamento dovrà essere il medesimo per tutte le scuole del servizio pubblico,

- unitarietà della formazione iniziale,

- tra gli insegnanti abilitati deve esserci l’opportunità per le scuole di selezionare quelli che siano maggiormente preparati per sviluppare il peculiare progetto formativo,

- non si tratta di consentire una selezione su base ideologica. Una simile possibilità è resa difficile dal processo complesso e rigoroso di formazione e avvio alla professione. Si tratta, al contrario, di costruire un sistema in cui sia la scuola, sia gli insegnanti possano godere di una maggiore possibilità di sperimentare le diverse professionalità.

Nella posizione di minoranza (Rescalli) si escludeva qualsiasi forma di chiamata degli insegnanti da parte dei singoli istituti, ma si avanzava la richiesta di concorsi biennali su base territoriale aperti a tutti gli abilitati con l’attribuzione dei posti in organico ai vincitori sulla base della preferenza degli interessati.

Nella stessa posizione si conveniva che detta attribuzione dovesse coniugare l’esigenza della libera scelta del vincitore del concorso e l’altrettanto legittima richiesta da parte delle singole unità scolastiche di reclutare insegnanti idonei al progetto educativo di istituto di cui un sistema delle autonomie riconosca l’insopprimibile specificità.

I vincitori di concorso, come nel sistema francese, avranno diritto di scegliere posti di ruolo (pagati dunque dallo stato) sia nelle scuole statali sia in quelle non statali, con il gradimento di queste ultime (come avviene in alcune università).

Una circolare ministeriale del 1977 prevedeva per le scuole che attuavano progetti di sperimentazione la possibilità di reclutare direttamente docenti, già di ruolo. Tale modalità, pur passata attraverso diverse operazioni di consolidamento, può dirsi in vigore anche oggi almeno in due scuole che si trovano un organico “coerente” con il progetto educativo.

 

QUALE CURRICOLO PER L’AUTONOMIA

Con la normativa sull’autonomia didattica e organizzativa il curricolo è stato composto con una parte nazionale ed una di istituto, alla quale poi è stata aggiunta una parte regionale. Questo secondo aspetto si è rivelato una forzatura localistica, tant’è che alcune regioni hanno rinunciato a regolamentarlo attribuendone le competenze alle scuole stesse. Riprendendo però il DPR 275/1999 e successivi provvedimenti che addirittura avevano quantificato le diverse componenti, si torna all’ intreccio tra norma generale e decisione locale, che deve pensare a soluzioni unitarie ma non uniche. Si tratta di prevedere obiettivi comuni da raggiungere, lasciando alle scuole autonomia professionale e di governance.

Se il Piano dell’Offerta Formativa deve “pensare globalmente” e “agire localmente” le risorse umane e finanziarie devono essere assicurate sia dallo Stato sia dai diversi soggetti pubblici e privati del territorio, anche attraverso il contributo alla fiscalità. Un organico di istituto potrebbe garantire la copertura funzionale al progetto formativo e se stabile nel tempo dare sicurezza agli operatori diminuendo la precarietà e l’impiego saltuario.

I tagli al personale messi in atto dagli ultimi governi di fatto hanno diminuito la “copertura” del curricolo, dei tempi scuola e dell’organizzazione didattica: già oggi sempre più attività richieste dalle famiglie e previste dall’ordinamento, vengono realizzate da altre professionalità con contratti esterni. Anche questo che fa parte non del dibattito ideologico ma della realtà dei fatti porta a concludere sulla necessità di decentrare non solo dal livello nazionale a quello regionale/province autonome, dove risiede la competenza di programmazione del servizio, il reclutamento, ma che questo riporti in equilibrio il sistema attraverso la definizione dei Livelli Essenziali delle Prestazioni, in stretto rapporto tra regioni e loro “ambiti territoriali” e istituzioni autonome o reti (le quali però non devono essere una nuova articolazione dell’amministrazione scolastica) per la definizione degli organici.

 

CHI RECLUTA, COME SI RECLUTA

Allora il come si recluta diventa più importante del chi lo fa. Come già veniva indicato nel 1996 si tratta di garantire modalità pubbliche di reclutamento, da inserire nell’applicazione del titolo quinto della Costituzione, in modo da poter garantire i concorrenti, sulla base dei requisiti, del contratto di lavoro e della mobilità. Si può operare a livello regionale/provinciale sulla base di una programmazione/verifica delle esigenze quanto- qualitative dell’offerta formativa territoriale.

Sulla base di una “norma generale” saranno emanati bandi regionali/provinciali con attenzione al territorio, alle autonomie scolastiche ed al merito dei progetti formativi. Concorsi periodici vanno a rimpinguare gli organici di istituto che vengono gestiti dalle scuole stesse, compresi contratti a tempo determinato per le diverse esigenze.

Alcune modifiche sarebbero auspicabili alle classi di concorso della scuola secondaria per rendere più flessibili insegnamenti che oggi vanno oltre la singola disciplina e che valorizzano da un lato i così detti saperi di confine e dall’altro rendono il team più snello per intervenire efficacemente sui processi di apprendimento e le dinamiche educative.

Anche la mobilità deve rientrare in questa strategia. Deve essere garantita su tutto il territorio nazionale, ma a condizione di poter accertare il perdurare dell’idoneità a svolgere la professione, mediante una valutazione in uscita e la tenuta di un “portfolio” del docente che può essere preso in considerazione da chi riceve, al fine di valorizzarne adeguatamente la presenza nel “team” del nuovo istituto.

 

LA LINEA DELLA QUALITA

Com’è noto la qualità professionale nella scuola è solo in parte garantita da titoli in ingresso; si tratta di un processo di implementazione al quale contribuiscono la riflessione sull’esperienza e la formazione in servizio. In primis occorre che vi sia un aggancio forte con la formazione iniziale, con l’università che oggi fornisce “l’abilitazione” all’insegnamento. Tra scuola e università devono passare quegli elementi di ricerca sul piano didattico e organizzativo che possono contribuire alla costruzione della professionalità e che il concorso può sinteticamente portare a valore.

La documentazione del lavoro svolto costituirà a livello di istituto o di territorio una banca dati delle buone pratiche per sostenere lo sviluppo professionale, ma anche un modo che contribuisce a conoscere la realtà sulla quale si va a realizzare la progettazione formativa. Con la documentazione individuale, compresa nel suddetto portfolio, si potranno raccogliere oltre ai risultati dei percorsi formali, materiali che descrivono l’esperienza lavorativa, sui quali sarà possibile impostare anche un’azione valutativa da utilizzare per altre professionalità o per lo sviluppo di carriera.

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Prospettare una maggiore autonomia nel reclutamento del personale dirigente e docente solleva ancora una certa diffidenza, pur nella consapevolezza che l’attuale modello burocratico e centralistico rischia progressivamente di paralizzare il sistema. Se fino a qui la garanzia di unitarietà del servizio pubblico ha riposato sulla distribuzione omogenea degli operatori su tutto il territorio nazionale, dopo la riforma della Costituzione la Repubblica fa salva l’autonomia delle scuole alle quali è dato il compito di “ricostruire” l’Italia a partire dai valori culturali e sociali delle comunità.