C'era una volta la scuola pubblica di Red Rom ScuolaOggi 13.7.2012 Pubblico-privato: il gioco delle parti Quando si parla di servizi pubblici, di “cosa” pubblica, di pubblica amministrazione, si assiste spesso ad una levata di scudi populista contro tutto ciò che sa di pubblico, non parliamo poi di Stato. Secondo questa vulgata, dietro ogni struttura pubblica si celerebbero il malaffare, il clientelismo, l’inefficienza, ed i pubblici dipendenti sarebbero per definizione torme di “fannulloni” (ma ci sono paesi europei con numeri più alti di civil servant, forse meglio distribuiti, qualificati e retribuiti, che presidiano il welfare state o la presenza delle istituzioni). Stiamo pagando cara questa diceria, visto il progressivo smantellamento di molte parti anche pregiate della pubblica amministrazione italiana. La spending review rischia di diventarne la prova provata. Ma non è di questo che vogliamo parlare, ma piuttosto di uno strano “gioco delle parti” che si presenta nel nostro sistema scolastico, quando si parla di pubblico e privato. Se in generale “privato” fa aggio su “pubblico” (per tutti i motivi detti sopra, “privato è bello”), così non avviene nella scuola: la scuola privata chiede a gran forza di essere considerata pubblica, le gerarchie ecclesiastiche (perché le scuole non statali sono in grande maggioranza di ispirazione religiosa) ne fanno una questione di principio e si rammaricano che le scuole non statali siano considerate tout court, nell’immaginario della gente, “private”. Anche la legge di parità, la n. 62 del 2000, fatta approvare da Berlinguer per suggellare l’uscita dal ghetto delle scuole cattoliche, viene strumentalmente citata per affermare che con essa si è voluto fondare un sistema scolastico “pubblico”, ove scuole statali e scuole paritarie, “pari” sono a prescindere dalla forma di gestione.
Parità: regole comuni per strutture diverse Quando sono in gioco le parole, un po’ di filologia non guasta. La legge 62/2000 non fonda un sistema pubblico indistinto, semmai istituisce il “sistema nazionale di istruzione” (e quindi una scuola per l’intero paese, con alcuni caratteri comuni, riferiti ai principi della Costituzione) e inserisce all’interno di questo sistema le scuole “statali” e le scuole “non statali” che ottengono il riconoscimento di “parità” (perché ottemperano a requisiti stabiliti dallo Stato e da questi controllati). Ma è la stessa legge a ricordarci che le scuole “paritarie” possono essere o “di Enti locali” (ad esempio, tante scuole dell’infanzia) oppure “private”. Quindi la legge 62/2000 (parità) non ha abolito il concetto di scuola privata, distinta da quella “pubblica” statale o degli enti locali. Gli stessi dati ufficiali del MIUR (cfr. La scuola in cifre, 2009-10, ultima edizione disponibile) ne riportano fedele testimonianza, utilizzando le terminologie statistiche in questa accezione.
Fonte. MIUR, La scuola in cifre, 2009-10.
Certamente, la legge 62/2000 riconosce che le scuole paritarie svolgono un “pubblico servizio”, perché contribuiscono ad ampliare l’offerta formativa, a garantire servizi educativi che spesso lo Stato non riesce a fornire (si pensi al già citato settore della scuola dell’infanzia, che è il più consistente dell’intero comparto “paritario”). Questo fatto consente allo Stato di erogare legittimamente – a nostro parere - finanziamenti pubblici alle scuole private, anche se alcuni esegeti dell’art. 34 della Costituzione (che parla di “senza oneri per lo Stato”) vorrebbero vietarglielo. Proprio perché “coprono” una fetta importante di servizio è opportuno che siano assicurati incentivi finanziari (con il contraltare di opportuni controlli), ma è anche ovvio che le risorse alla scuola paritaria seguano gli alti e bassi dei finanziamenti alla scuola statale. Non è un bel vedere, cioè, che quando si riducono le risorse per la scuola statale, non altrettanto avvenga per la scuola paritaria. Gli esempi di questi anni sono illuminanti. “Simul stabunt simul cadent”.
Quando una scuola può dirsi “pubblica” Tutto il bene che possiamo dire per il sistema paritario non cambia però la natura giuridica delle scuole non statali paritarie, tramutandole automaticamente in scuole pubbliche. Noi pensiamo che una scuola pubblica debba scrivere sui propri portoni i valori del pluralismo culturale e religioso; della ricerca critica della conoscenza; dell’accoglienza non legata a questioni di censo, religione, etnia; del reclutamento per pubblico concorso del personale; del rigoroso rispetto delle regole del lavoro dipendente (troppe denunce di trattamenti in nero, che docenti precari accettano pur di fare punteggio…). Molte scuole private svolgono un’azione educativa meritoria, là ove magari il pubblico non si fa vedere o riduce la sua presenza. E’ però arduo pensare che tali scuole rinuncino alla propria identità, che non intendano testimoniare con nettezza una vocazione, un’appartenenza, la coerenza con convinzioni profonde; tanto è vero che chi sceglie quelle scuole deve accettarne l’impostazione educativa (per esse, e solo per esse, la legge di parità prevede un “progetto educativo”, mentre alla scuola di Stato è fatto obbligo di formulare un più prosaico piano dell’offerta formativa (POF). Scuole paritarie meritevoli, dunque, scuole anche di qualità (al netto dei diplomifici, che sono questione non educativa, ma di codice penale), però scuole di tendenza, tendenza di “valore”, per carità. Nulla da eccepire, anzi. Solo per ricordare che in un sistema educativo aperto, plurale, fatto di sussidiarietà, c’è il pubblico e c’è il privato, due settori che possono collaborare, che ampliano l’offerta educativa e possono migliorarla, che hanno diritti e doveri da rispettare, ma che restano –almeno giuridicamente – su due piani diversi. |