Tutta colpa dei fuori corso? di Federico Del Giudice Il Fatto Quotidiano, 15.7.2012 Nell’ultima settimana una serie di atenei hanno preso posizione schierandosi contro il ministro ed esprimendosi contro questi aumenti. La risposta di Profumo non si è fatta attendere: cavalcando una retorica ideologica che considera gli studenti fuoricorso dei pelandroni costosi, il ministro, ad un convegno organizzato da Unicredit, ha dichiarato che “La nostra università è l’unica al mondo in cui ci sono i fuori-corso” e ancora “Non parlo di chi studia e lavora, che può scegliere il part-time e avere una diversa pianificazione degli studi. C’è invece una quota importante di studenti che seguono i corsi e fanno l’esame dopo tre anni. Così insegniamo ai giovani che non c’è relazione tra il tempo e il suo valore”. Il ministro ha inoltre ipotizzato di istituire multe per chi non rispetta le scadenze per sostenere un esame “Un po’ di bastone e carota. Questo è un paese che ha bisogno di essere trattato in questo modo. E dobbiamo avviare questo processo“. Queste stesse dichiarazioni sono state ribadite a Palermo dal ministro. Sono convinto che queste dichiarazioni abbiano il retrogusto di un paternalismo che ben caratterizza il Governo Monti: ci si preoccupa dei giovani quando è necessario approvare una riforma del mercato del lavoro che rende stabile la precarietà per tutti i lavoratori, per il resto i giovani rimangono sempre e comunque “sfigati” e “bamboccioni”, colpevoli se non ce la fanno (nonostante la disoccupazione giovanile oltre il 30%), da educare con vecchi metodi. La situazione è però un po’ diversa: molti di noi oggi lavorano per pagarsi gli studi, sono costretti ad emigrare all’estero per poter lavorare o sono ricattati attraverso contratti a progetto, collaborazioni, lavori a chiamata, mentre i figli dei professori hanno brillanti carriere ed un posto fisso garantito nell’università dalla mamma ministro e del papà ordinario e utilizzano fondi di ricerca stanziati sempre dalla mamma. Forse il ministro Profumo dimentica le reali cifre che separano l’università italiana dai sistemi formativi europei: l’Italia spende per l’università lo 0,9% del Pil in confronto ad una media europea dell’1,5%, l’8,4% degli studenti risultano beneficiari per la borsa di studio in Italia, quando la media europea è superiore al 25%. Mi domando, inoltre, se il Ministro Profumo sappia che il rapporto tra il numero di studenti per docente in Italia è nettamente superiore rispetto a quello degli altri paesi europei e di come tutti questi fattori incidano sulla possibilità dello studente di essere seguito (prove intermedie, approfondimenti, livello di interazione) e sulla caoticità dei servizi e della didattica dell’università italiana. Ma come sempre ci confrontiamo con l’Europa solo quando si deve tagliare la spesa pubblica e approvare riforme del mercato del lavoro che precarizzano il futuro di una generazione, mentre quando ci si dovrebbero confrontare sui livelli di investimento in istruzione la nostra classe politica fa finta di nulla. Chi attacca oggi i fuoricorso, circa il 40% degli studenti italiani, e li dipinge come un costo che lo Stato italiano non può più permettersi, causato solo dalla pigrizia e dall’indolenza, dimentica purtroppo tutti questi dati: la drammatica situazione del diritto allo studio, la complessità dei percorsi formativi, le tasse già oggi troppo elevate (siamo il terzo paese in Europa per tasse universitarie), la competitività tra università, che per anni hanno cercato in tutti i modi di accaparrarsi gli studenti e di tenerli parcheggiati in facoltà vuote per anni in cambio di migliaia di euro di tasse universitarie, e soprattutto il rifiuto di lavoratori laureati da parte delle aziende. A ciò si aggiunge una costruzione fortemente ideologica che identifica la velocità negli studi con la bravura dello studente, che mira ad istituire uno schema competitivo tra università, sostenuto da tasse studentesche molto elevate, prestiti d’onore e meccanismi punitivi legati alla velocità di apprendimento di uno studente rispetto ad un altro. In passato laurearsi fuoricorso era normale e quasi considerato segnale di una certa serietà negli studi, oggi sembra invece che non abbia alcun valore approfondire i temi di studio oltre i libri di testo, fare stage o esperienze lavorative per integrare la formazione accademica, seguire corsi ulteriori a quelli previsti dal piano carriera, prendersi un anno per scrivere una tesi di laurea che sia una reale elaborazione dello studente, che preveda attività di ricerca, che si basi su una solida formazione sul tema, e non il copia-incolla frettoloso di un po’ di testi consigliati dal docente. Questa cornice dimostra poi il suo essere ideologica soprattutto nel momento in cui viene confrontata con i dati che escono dall’ultimo rapporto AlmaLaurea: l’investimento personale sull’istruzione non viene minimamente premiato dal mercato del lavoro italiano. Se il tempo di studio ha un valore per il Ministro Profumo, mi chiedo perché il sapere invece non ne abbia. Se così non fosse non si spiegherebbero i tagli degli ultimi venti anni e il continuo susseguirsi di riforme che hanno solo peggiorato l’organizzazione del sistema formativo italiano. Mi chiedo poi se sia davvero necessario fare della figura dello studente fuoricorso il capro espiatorio del collasso dell’università pubblica, se sia ancora necessario scindere e contrapporre gli studenti in corso con gli studenti fuoricorso così come la Fornero ha voluto contrapporre per mesi i lavoratori garantiti contro i lavoratori non garantiti. Mi aspetterei una risposta del governo a queste mie domande ma forse al giorno d’oggi per la nostra generazione domandare alcune cose non è lecito. L’unica possibilità che ci resta sarà riproporre le stesse domande nelle piazze di settembre per strappare delle risposte con la forza delle nostre idee! |