Spending review, di Ugo Cardinale da Pavone Risorse, 15.7.2012 L'Italia non ha mai avuto una politica linguistica restrittiva nei confronti di neologismi d'importazione straniera, anzi a volte la nostra esterofilia si è spinta fino all'uso di espressioni straniere non per necessità, come nel caso di neologismi tecnici (es.mouse) di cui non esisteva il corrispondente in italiano (topo?), ma per vezzo, come nel caso di locuzioni alla moda del tipo "question time", per indicare i tempi degli interventi parlamentari , proprio nel luogo più tipico della rappresentanza nazionale. Recentemente il Rettore del Politecnico di Milano ha previsto d'autorità l'uso esclusivo dell'inglese nella laurea magistrale e nei master. Può anche essere un utile passo avanti verso l'apprendimento più intensivo di una lingua che per ragioni diverse sta assumendo un ruolo egemonico a livello internazionale, ma può essere anche il preludio di un impoverimento del pensiero con conseguente perdita di sfumature concettuali non irrilevanti. Anche l'Accademia della Crusca, organo che da secoli si batte per la tutela della nostra lingua, ha sollevato il suo allarme in una pubblicazione collettiva che sta per uscire dall'editore Laterza. Per venire ad un caso concreto, ad esempio, l'espressione Spending review , invocata dal ministro Giarda nell'attuale congiuntura politica che ha affidato ai tecnici il governo del paese, può sembrare una formula efficace nella sua apparente semplicità sintattica, ma non è esente da ambiguità semantiche. Il verbo to spend in inglese non ha un significato totalmente equivalente all'italiano 'spendere', perché viene anche utilizzato per indicare un particolare uso del tempo, nel senso di "trascorrere" o di "dedicare il tempo a un particolare scopo". La valenza del verbo non sembra quindi essere solo strettamente economica, a meno di voler invocare il motto del business man che "il tempo è denaro". Anche la parola review, come si può rilevare dal dizionario Oxford advanced, può comportare diversi significati, con qualche variante sinonimica. Può significare:a)riesame, riconsiderazione, significato più vicino alla sua genesi sintattica, come composto del prefisso re- (analogo all'italiano ri-) e del sostantivo view, visione; può però significare anche b) survey, indagine, report, relazione; c) recensione , con apprezzamenti valutativi. Come ogni parola che nasce dai meccanismi di composizione della lingua, review conserva nascosto il significato d'origine, ma diventa un "sintema"[1], cioè subisce una trasformazione che le conferisce un significato autonomo, diverso dalla semplice somma delle sue parti componenti. Review per lo più non è solo un 'veder di nuovo', una semplice re-visione, in senso ripetitivo, iterativo, come d'altra parte, non lo è neppure il corrispondente italiano 'revisione'. Come ben lo sa chi ha a che fare con i revisori dei conti! La traduzione cui fa invece riferimento il dizionario on line Treccani.it ' resoconto di spesa o resoconto delle spese' non sembra esprimere compiutamente l'idea congiunta all'espressione inglese del "passare in rassegna, rivedere le spese e revisionarne i criteri". Ecco perché non è auspicabile prendere a prestito parole straniere per operazioni che riguardano le politiche pubbliche nazionali,sia pure con il nobile scopo di lusingare i mercati, se non si vuole surrettiziamente sostituire la tecnocrazia alla democrazia. La politica linguistica della Francia insegna: infatti, quando ha adottato nel 2008 politiche ispirate alla " comprehensive spending review" del Regno Unito, ha preferito usare una formula francese " La Revue Générale des Politiques Pubbliques". In Italia l'espressione è stata introdotta in politica da economisti , che si sono ispirati al modello anglosassone, prima il ministro Domenico Siniscalco nel 2004, poi il ministro Tommaso Padoa Schioppa nel governo Prodi. Quindi, per inquadrare meglio anche l'attuale uso dell'espressione da parte del governo Monti, è utile fare un riferimento più preciso all'esperienza anglosassone,che ne è il presupposto implicito, perché potrebbe riservare sorprese: nel Regno Unito tale politica infatti non si riferisce solo ad un intervento ex post, rispetto ad un'emergenza, come la crisi attuale, ma anche ex ante, come lo prova la sua dimensione quasi ventennale. E, se è vero che il ministro dello scacchiere, John Osborne, nel suo discorso di annuncio nell'ottobre del 2010 dichiarava che "la spending review è venuta al tempo in cui lo stato sta spendendo significativamente di più di quanto incassa in tasse e incontra il gap del deficit di bilancio", è vero anche che tale politica è nata già alla fine degli anni novanta, per facilitare la pianificazione della spesa, con un'ottica pluriennale, rispetto alla tradizionale pianificazione annuale attraverso il Budget ( cioè quello che nel nostro Paese è la 'Finanziaria'). Nel Regno Unito consiste infatti in un monitoraggio dei capitoli di spesa pubblica con l'obiettivo di fissare , con un'ottica triennale, un tetto alle risorse disponibili di ciascun ministero o dipartimento. è un processo di allocazione delle risorse di spesa pubblica, in accordo con le priorità del governo, che rende fissi i budget per ciascun dipartimento e demanda a ciascun ministero la decisione su come meglio attuare e distribuire le spese all'interno delle rispettive aree di responsabilità. L'analisi che supporta le decisioni viene presentata in una relazione molto dettagliata che considera l'impatto di ciascuna decisione sui servizi offerti al pubblico. Ad esempio nel Ministero della Giustizia le decisioni di accorpare o chiudere tribunali viene di solito preceduta da un'analisi sull'impatto delle scelte sull'accesso alla giustizia, focalizzandosi in particolare sulle categorie più vulnerabili. Tale analisi si chiama Equality Impact Assessment ed é volta a considerare i potenziali effetti discriminatori di proposte legislative su determinate categorie di utenti definite secondo una serie di parametri (sesso, età, etnia, disabilità, religione, orientamento sessuale ecc.). Inoltre vi é una distinzione tra spending review e comprehensive spending review: la seconda ha un'ottica più di lungo termine (fino a 10 anni, invece di 3), é più radicale e parte da zero ignorando qualunque impegno di spesa preesistente. La prima comprehensive spending review é stata effettuata nel 1998; ad essa hanno fatto seguito spending reviews nel 2000, 2002 e 2004. L'ultima comprehensive spending review é stata effettuata nel 2007 da Gordon Brown, mentre il nuovo governo di coalizione ha portato a termine una spending review nel 2010 che fissa parametri di spesa fino al 2013/14 (il calendario della finanziaria Regno Unito inizia ad aprile e finisce all'aprile dell'anno successivo). Qualcuno ha definito anche la spending review del 2010 "comprehensive" vista la portata dei tagli per ridurre il deficit di bilancio (circa 80 miliardi di sterline in 3 anni). Di solito la spending review è preceduta da un lungo periodo di consultazione con i dirigenti dei vari ministeri e dipartimenti ed anche con il pubblico. Circa 100.000 idee ed opinioni sono state avanzate dal pubblico nel lavoro di preparazione della spending review del 2010. Come si vede, si tratta di un'azione simile, ma anche un po' diversa da quella intrapresa dal governo italiano nel decreto legge del 5 luglio 2012, convertito in legge n.94/2012 contenente " Disposizioni urgenti per la riduzione della spesa pubblica a servizi invariati", che ha affidato la revisione ad un "commissario straordinario per la spending review, Enrico Bondi". Il commissario ha svolto "un'analisi, che ha permesso di individuare un benchmark ( un parametro, ma l'ambiguità anche qui non si può sciogliere agevolmente!) di riferimento in base al quale stimare l'eccesso di spesa in capo all'amministrazione" e di prevederne la razionalizzazione, prendendo spunto anche "dalle lettere inviate dai cittadini che hanno partecipato alla consultazione pubblica sulla spending review. La differenza tra la lunga consultazione tecnica in Inghilterra e l'intervento in emergenza di un "deus ex machina" non è di poco conto per la salvaguardia di una prassi democratica, sia pure non demagogica. Ma in Italia , per paura della demagogia , ci si rifugia nella tecnagogia: si veda l'altro abuso di termini inglesi, come fair play finanziario, road pricing, project bond, project financing, che sta ispirando la nostra fantasia finanziaria, per contenere le spese del calcio mercato e per finanziare i servizi in deficit dei trasporti metropolitani.
[1] Secondo il linguista Martinet , un sintema può essere visto non tanto come un sintagma, ma come un'unità autonoma di senso e struttura in cui la dimensione semantica travalica l'ambito puramente componenziale. |