Lo scopo dei test Invalsi

di Marina Boscaino Pavone Risorse, 24.7.2012

Se lo scopo ultimo dei test Invalsi è quello di "migliorare e rendere più omogenea la qualità della scuola italiana, elaborando valutazioni oggettive e mettendo a disposizione delle istituzioni e delle singole scuole i risultati. In particolare, nel caso dei singoli istituti, questo meccanismo dà la possibilità di avviare processi di valutazione e autovalutazione, individuando sia gli elementi positivi da conservare, sia quelli negativi sui quali intervenire per risolverli", come esplicitato dalla nota del Miur che ha accompagnato la presentazione dei dati relativi alle rilevazioni effettuate la scorsa primavera su 2 milioni e 900 mila alunni italiani di 141 mila classi, ben vengano i test Invalsi.

Ma c’è un ma: da quando i test italiani ed internazionali denunciano la condizione non brillante della scuola italiana, non risulta un concreto intervento finalizzato a invertire la tendenza, ad appianare le differenze tra zone del Paese, a proporre azioni direttamente ed intenzionalmente mirate alla risoluzione di problemi che, investendo competenze irrinunciabili, coinvolgono il piano della cittadinanza consapevole.
Un esempio per tutti: il fallimento della strategia di “Lisbona 2010” per quanto riguarda la scuola ha evidenziato, oltre alla propensione alla dispersione scolastica e al basso livello di diplomati, anche una drammatica incapacità di letto-scrittura per una gran parte degli studenti europei, che nel nostro Paese, peraltro, dal 2000 al 2009 è aumentata.
Non starò qui a rievocare dettagliatamente fatti a tutti noti: basti pensare che proprio nel 2009 (in seguito alla legge 133/08) è iniziata l’opera di “razionalizzazione e semplificazione” (leggasi tagli drastici) per concretizzare la quale, cancellando 130mila posti di lavoro tra docenti ed Ata, e risparmiando 8mld di euro, si è provveduto a diminuire del 10% il monte ore totale (attraverso la diminuzione delle ore di lezione), nonché ad aumentare il rapporto alunni-docente: meno scuola (più povera) e classi più numerose (tra i vari provvedimenti nefasti per la scuola) non sono certo le condizioni ottimali per tentare di sanare l’incapacità di leggere correttamente da parte dei 15enni scolarizzati di un Paese.

L’operazione, come sappiamo, fu inaugurata e portata avanti senza sbavature da Mariastella Gelmini. Al momento, nonostante le professioni di fede sul valore degli insegnanti e sulla bontà della nostra scuola (che almeno allontanano da noi quel vero e proprio fuoco incrociato di calunnie ed insulti esternati a turno da vari membri del governo Berlusconi sugli insegnanti italiani), non sembra che Profumo abbia intenzione di invertire il trend, almeno sul piano economico: razionalizzazione e semplificazione continuano ad essere le parole d’ordine. Il dimensionamento continua implacabilmente, nonostante persino una sentenza contraria della Consulta. La spending review non ha risparmiato la scuola.

La fotografia che ci è stata consegnata dall’Invalsi ripropone uno scenario ormai consolidato nel nostro Paese: a parte un parziale miglioramento di Abruzzo, Basilicata e Puglia, il quadro è quello di un’Italia, anche dal punto di vista degli esiti di una presunta misurazione oggettiva degli apprendimenti in Italiano e Matematica (rimangono immutate tutte le perplessità sull’efficacia delle prove Invalsi) , a due o più marce, che corrispondono puntualmente alle differenti zone socio-economiche del Paese: nord e sud.

Non c’è alcuna sorpresa: recentemente l’Istat per l’ennesima volta, ma anche tutta la letteratura di riferimento, hanno confermato l’ovvio rapporto diretto tra condizioni socio-economico-culturali e rendimento scolastico. Negli Stati Uniti lo chiamano “effetto Volvo”: dimmi con che auto i tuoi genitori ti accompagnano a scuola e ti dirò qual è il tuo profitto.

Allarghiamo la prospettiva dalla singola scuola al Paese e vedremo come questo principio trovi una puntuale conferma. Il divario tra Nord e Sud si accentua man mano che si procede dalla scuola primaria al biennio della scuola secondaria di II grado, fino ad arrivare ad individuare un gap di ben 26 punti (contro i 9 della primaria) tra studenti del biennio del Nord e quelli del Sud. "In altri termini - sottolinea il rapporto - l'operare del sistema scolastico non sembra in grado di contrastare tali divari, che risultano anzi acuiti col progredire della carriera scolastica degli alunni".

E perché dovrebbe?

Quali sono gli investimenti, le strategie, gli interventi concreti che si sono determinati per far fronte a questa situazione che ormai rischia di immobilizzare, attraverso la scuola, destini socio culturali anche su base regionale?

Come si è lavorato, ad esempio, sull’educazione alla cittadinanza da una parte e sulla volontà concreta di sradicare in alcune scuole del Sud (a fronte di tante in cui si lavora con impegno e serietà) comportamenti poco virtuosi, che videro la propria espressione più eclatante nella messe esorbitante di 100 e lode con cui venivano licenziati gli studenti?

Infine: come si può pensare alla definitiva applicazione del Titolo V della Costituzione in una scuola dello Stato che viaggia a marce diverse, che licenzia individui con competenze estremamente differenti, che incide in modo così disomogeneo sul futuro – di cittadini, di studenti, di lavoratori – di chi la frequenta?