Istruzione e lavoro: si possono
mettere insieme "otium" e "negotium"?

 Pavone Risorse, 24.7.2012

Che cos’è la scuola? Non è una domanda banale, come si evince dall’esistenza di tanti e differenti sistemi scolastici nel mondo e dall’acceso (e pressoché eterno) dibattito sulla nostra scuola, quella italiana. Le parole hanno un loro peso, lo sappiamo, al punto che Wittgenstein le paragonava alle pietre. E se a studiare la storia delle pietre ci pensa la geologia, per una storia delle parole si ricorre all’etimologia.

E così si scopre che “scuola” deriva dal latino “schola”, che significa “ozio”, “riposo”, inteso come “pausa” dalle fatiche del lavoro, insomma una vera e propria “ricreazione mentale”.
Per gli antichi, dunque, la scuola è un luogo sottratto alle fatiche quotidiane – “otium contra negotium” – uno spazio di condivisione di idee ed esperienze personali e collettive, un ambito in cui ci si ritrova per ricevere una adeguata educazione o formazione.
Educazione e formazione: anche questi termini sono decisivi per comprendere il significato di “scuola”. Per quanto concerne il primo, gli antichi avevano le idee piuttosto chiare: “educazione” significa “condurre fuori”, sottrarre l’uomo ai suo istinti razionali e renderlo capace di interagire con i suoi simili e l’ambiente circostante in maniera razionale. L’educazione fornisce all’individuo gli strumenti necessari affinché possa muoversi in piena autonomia.
Ed è qui che si riscontra il legame che lega l’educazione alla formazione: un essere “formato” è dotato di una struttura che lo rende riconoscibile a se stesso e agli altri, struttura senza la quale non è possibile alcun agire autonomo.
Forma ed educazione, a loro volta, chiariscono anche il significato di un altro termine legato alla scuola: “istruzione”.
A scuola, infatti, vengono impartiti tutta una serie di “saperi”, che insieme danno vita ad una “adeguata istruzione”. Ma adeguata a che cosa? È questa la domanda decisiva per comprendere appieno il significato della scuola e dunque anche il suo ruolo.
Per gli antichi l’istruzione non era certo – o al limite non solamente – finalizzata ad una formazione essenzialmente specialistica, volta cioè a formare un individuo in grado di svolgere questa o quella determinata funzione. Per un giovane attratto da un ben determinato “mestiere”c’erano le botteghe artigiane.
E infatti, l’etimologia della parola “mestiere” rimanda sia al “mettersi al servizio” di qualcuno sia all’esercizio di una “arte meccanica”. Insomma, non si tratta di scuola, ma di quello che parecchi secoli dopo verrà chiamato avviamento apprendistato o avviamento professionale. La scuola degli antichi, al contrario, puntava a una formazione globale dell’individuo, volta cioè a fornirli un sapere indispensabile per la propria esistenza, fuori e dentro la scuola.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità, che è una istituzione moderna, ha individuato dieci indispensabili “Life skills”, letteralmente “competenze di vita”, che quasi tutti i Paesi hanno fatto propri, quanto meno quelli più avanzati, compresa l’Italia: consapevolezza di sé, senso critico, gestione delle emozioni, prendere buone decisioni, gestione dello stress, risolvere problemi, empatia, creatività, comunicazione efficace, relazioni efficaci.
Gli antichi avrebbero chiamato l’insieme di tali competenze “paideia”, una formazione globale, appunto, in grado di trasformare gli uomini in eccellenti cittadini. Competenze che, nella accezione antica come in quella moderna, hanno a che fare soprattutto con la sfera razionale dell’uomo, una sorta di lume che gli consente di “fuoriuscire dallo stato di minorità” (Kant), di lasciarsi cioè alle spalle l’età infantile, strettamente legata alla Natura, per proiettarsi verso quella adulta, caratterizzata dal raggiungimento di una piena autonomia.

L’adulto è finalmente libero, proprio perché ha reciso i legami con la Natura e la dipendenza da altri (i genitori). Ma la libertà dell’adulto chiama in causa il senso di responsabilità, poiché d’ora in poi egli dovrà rispondere direttamente delle proprie idee, delle proprie azioni e delle proprie scelte, anche quando non sceglie (il “punto zero” o “scacco esistenziale” di Kierkegaard).
Ed è proprio in questo difficile trapasso esistenziale che interviene la scuola, la quale fornisce ai giovani gli strumenti necessari a prendere decisioni in piena autonomia (“consapevolezza di sé” e “senso critico”), insegnando loro come “prendere decisioni” adeguate, gestendo al meglio “il proprio stress”, “risolvendo problemi” in maniera “creativa” e adottando una “comunicazione efficace” e via dicendo: un ruolo di “accompagnamento”, dunque, e non di “direzione”, quello della scuola.
Un ruolo che, come tale, non può rispettare limiti temporali: in quanto globale, appunto, o la formazione è per tutta la vita o non è. La scuola si presenta dunque come uno spazio liberato dalle incombenze del lavoro quotidiano (quanto meno in epoca moderna e nei paesi più avanzati, dell’età adulta), come luogo in cui ci si ferma a pensare (“otium”), dove si ricaricano le pile per poi ripartire (per lavorare, nel caso degli adulti: “negotium”).

Ma se così stanno le cose – si dirà – un rapporto tra i due mondi, quello della scuola e quello del lavoro, è impossibile! Non proprio.
La scuola impone sì il riposo dalle fatiche quotidiane, dai “negozi”, condizione necessaria affinché la mente possa operare nelle migliori condizioni, e tuttavia anche la mente lavora.
Il processo formativo della scuola sottrae sicuramente del tempo al “negotium”, ma con l’obiettivo di fornire alla società tutta individui in grado di interagire con essa e con i propri traffici. Uomini e donne che non solo “conoscono” ma che sanno anche come “spendere” le proprie conoscenze (Platone). Insomma, la scuola sottrae sì del tempo al presente, ma lo reinveste nel futuro: paga un prezzo piuttosto alto oggi per pagare molto meno domani, anzi per guadagnarsi il futuro. Insomma, siamo di fronte ad un “investimento”, un termine proprio del mondo del lavoro.

Ed è proprio sull’investimento che i due mondi possono dialogare. Il tempo sottratto agli affari quotidiani viene cioè ampiamente compensato dalla formazione complessiva che la scuola offre ai propri discenti, facendone degli individui in grado di spendere al meglio le proprie conoscenze.
La libertà dell’insegnamento e dell’apprendimento vengono messi “al servizio” della società, creando esseri autonomi e responsabili. L’uomo “formato” è dunque l’esatto contrario dello “schiavo”, che, per definizione, dipende dall’altrui volontà, come in parte il bambino.

È la scuola, dunque, a lanciare la sfida al mondo del lavoro e non il contrario, come spesso si tende a credere – o a fare credere – oggi in Italia.
Nell’immaginario collettivo nostrano la scuola appare come un’entità sottratta al divenire, vecchia e burocratica, pedante e sostanzialmente inutile. Al contrario, il mondo del lavoro viene visto come dinamico, giovane e intraprendente. Una visione negativa della scuola che si è andata accentuando negli ultimi anni, complice la spaventosa crisi che attanaglia, ormai, il pianeta intero. È forse colpa della scuola quanto sta accadendo in Italia? A sentire le sedicenti agenzie che si occupano del “problema” scuola (pubblica!), tutte appartenenti al mondo del “negotium”, nonché molti politici e commentatori sui mass media, sembrerebbe di sì: tutti lamentano l’inadeguatezza del sistema formativo italiano (sempre quello pubblico ben inteso) a fronte delle enormi sfide del mondo moderno o postmoderno che dir si voglia.

Persino il Ministro dell’Istruzione, il tecnico prof. Francesco Profumo, ha denunciato di recente tale insostenibile situazione: “Il nostro mondo è un mondo che in questo momento non stiamo assolutamente controllando”. E ancora: “Ci siamo dimenticati che cosa sia il bene comune ed è per questo che il Paese deve mettere al centro il problema dell’istruzione o meglio dell’educazione”. Profumo ha anche auspicato la fusione tra Ministero dell’Istruzione e Ministero del Lavoro. Una conclusione che però sembra contrastare con le premesse: quale consequenzialità sussiste, infatti, tra la rivendicazione della “centralità dell’istruzione o meglio dell’educazione” e l’accorpamento di ministeri così diversi? E se tale accorpamento dovesse procedere, che senso si dovrebbe dare all’istruzione “o meglio all’educazione”? Non più, sicuramente, quella di “trarre fuori” l’uomo dai propri istinti naturali, non più una formazione globale e permanente dell’individuo che solo un ministero autonomo potrebbe garantire. Forse un’educazione al lavoro? E a quale tipo di lavoro e con quali mansioni? Ma poi, se il sistema dell’istruzione o meglio dell’educazione è così centrale, allora perché da almeno dieci anni a questa parte non si è fatto altro che colpirla, tagliando fondi, stipendi e personale? Perché?

Domande alle quali si può rispondere formulando un altro genere di quesito e cioè: siamo proprio così sicuri che il mondo del lavoro sia dinamico, proiettato verso il futuro e in grado, come tale, di rispondere alle sfide del presente?

Spesso si prende ad esempio della tragica situazione in cui versa il nostro sistema di istruzione quelle centinaia e centinaia di giovani (e meno giovani) costretti ad emigrare pur avendo primeggiato nelle nostre scuole e nelle nostre università: “fuga di cervelli” la chiamano i mass media. Un problema gravissimo, poiché queste persone sono state formate grazie ai soldi dei contribuenti (che in Italia si riducono praticamente ai soli lavoratori dipendenti, tra cui gli insegnanti). Colpa di una scuola e di una università obsolete, certo, dove il merito non viene premiato, verissimo, come vero è che per i tagli degli ultimi anni non ci sono più soldi per la ricerca.

Ma non è forse anche colpa di un mondo del lavoro che non li richiede, che forse nemmeno li comprende o che addirittura li teme? È forse colpa della scuola o dell’università se la nostra industria non primeggia più in alcun settore, come invece avveniva negli anni Sessanta e Settanta con imprese del calibro della Olivetti, della Fiat, dell’Eni, dell’Alfa Romeo o della Zanussi? La più grande e nota di tutte, la Fiat, lamenta di continuo una crisi che imputa ai suoi lavoratori, soprattutto quelli più sindacalizzati. Ma quali sono state le sue strategie negli ultimi anni? Forse le bianche felpe con il marchio dell’azienda ben in vista da vendere nei negozi di moda? A quanto si sa, hanno avuto più successo quelle rosse con il marchio della Fiom, che pure si vendono solo in corteo!

O forse la riproposizione di vecchi modelli di successo (ai tempi in cui l’azienda investiva e soprattutto sui giovani), ma solo nel nome, perché nelle forme e nei prezzi siamo davvero in un’altra dimensione? A quanto si sa, vendono molto di più le auto elettriche di Renault e Volkswagen: questo è davvero sapere guardare avanti! E quanti ingegneri, ricercatori o studiosi hanno assunto le nostre aziende negli ultimi anni? Quanti curricula hanno rimandato indietro con la dicitura “spiacenti, ma in questo momento il nostro organico è al completo”? E a quanti non si sono nemmeno degnati di rispondere? Sono davvero così obsolete e inutili le conoscenze e le competenze acquisite dai nostri studenti a scuola e in università? E quali sono quelle dei manager pubblici e privati? E chi paga per i loro errori e per la loro ignoranza?

La scuola necessita di una riforma, di una grande, seria e reale riforma, su questo non si discute. L’ultima risale al lontano 1923. Da allora tanta acqua è passata sotto i ponti e in qualche occasione la scuola, stimolata da una classe politica sicuramente più lungimirante dell’attuale, è stata in grado di rispondere alle sfide della storia, come negli anni Sessanta, ai tempi del serio e reale centrosinistra di Fanfani, Moro e Nenni, dei giganti rispetto ai politici di oggi. Quali i provvedimenti degli ultimi anni? Tagli indiscriminati e qualche modifica parziale in questo o in quell’ordine di scuola. L’attuale Ministro, poi, non ha saputo fare di meglio se non riproporre obsolete (queste sì) forme di reclutamento basate sulla mera conoscenza dei contenuti (nella forma delle domande a risposta chiusa, con le crocette, che fa tanto british!), sorvolando tranquillamente non solo sulle life skills, ma anche sullo stesso contratto degli insegnanti, il quale non prevede la sola trasmissione dei contenuti, ma anche funzioni più complesse, come quelle della relazione e di altre competenze (le life skills valgono per tutti). Provvedimenti tampone che non fermano l’emorragia in atto ormai da decenni nella nostra scuola. Ma forse il Ministro Profumo non ha del tutto torto: la scuola italiana è effettivamente simile ad una azienda: stessa struttura gerarchica, stesso centralismo e medesima tristezza. Una scuola dove la campanella scandisce i tempi della formazione come a suo tempo la sirena scandiva le tappe della produzione della fabbrica fordista.

Una scuola che rinchiude alunni e docenti in anguste e insicure aule, privandole dei moderni strumenti di comunicazione e ricerca, esattamente come accade nei reparti delle nostre aziende. Una scuola dove lavoratori e docenti vengono di continuo umiliati, costretti a chiedere carta per i bagni e carta per le stampanti. Una scuola dove mancano coraggio, creatività, problem solving e tutte le altre life skills, esattamente come nel mondo del lavoro, e non certo per volontà di studenti, docenti e operai!

Certo, se la scuola si dovesse subordinare al mondo del lavoro, almeno arriverebbero le lavagne multimediali, forse anche qualche Pc (non certo quelli di ultima generazione, che non si possono mica scaricare dalle tasse come donazioni!), sicuramente un po’ di carta igienica nei bagni e qualche risma per le stampanti. Ma in cambio di che cosa? Un mondo del lavoro che considera – che ha sempre considerato – la cultura come una perdita di tempo (se non un pericolo per l’etica di impresa!), accetterà che la scuola continui a sfornare individui critici e consapevoli? Un mondo del lavoro che abbandona uno Stato che lo ha sovvenzionato in ogni modo, per raccattare nelle zone più povere del Paese schiavi da sfruttare fino al midollo, con quale diritto e quale credibilità potrà gestire o co-gestire il mondo della scuola? E questo Stato, rinunciando al suo ruolo formativo, alla gestione (e mai al controllo, ben inteso) di una scuola che forma i cittadini di domani e la futura classe dirigente, da chi verrà guidato? Dagli attuali manager dell’industria pubblica o privata? E sulla base di quale merito e selezione? E quali saranno le regole che imporrano alla società tutta? Forse le stesse che impongono ai lavoratori nelle loro aziende?

Caro Ministro, caro imprenditore, caro presidente di una qualsiasi di quelle agenzie che si occupano del disastrato mondo della scuola (sempre pubblica, per carità), rispondo alle vostre critiche, francamente sempre uguali, con le parole pronunciate parecchi secoli orsono da Aristotele: “La filosofia non serve a nulla, dirai; ma sappi che proprio perché priva di legame di servitù, è il sapere più nobile”.