Merito e competizione non servono di Giovanni Bardi ItaliaOggi, 3.7.2012 Il merito nella scuola di massa, senza aver investito sulla qualità delle relazioni tra insegnanti e studenti, rischia di restare solo una bella pezza a colori. Sono le relazioni infatti che fanno la differenza a scuola. Ad affermarlo è Giuseppe De Rita, presidente del Censis, che nell'ultima pubblicazione dal titolo «Fenomenologia di una crisi antropologica», presentata nel corso degli incontri dedicati a «Un mese di sociale», si è soffermato sui segni della crisi della figura dell'insegnante ma anche sui segnali di una sua possibile rinascita. Mentre la scuola, dopo l'impresa, viene indicata dagli italiani come il driver su cui investire per accrescere la competitività del Paese, per quattro italiani su dieci (che arrivano a sette su dieci tra i 18 – 29enni) il sogno è quello di mandare i figli a studiare all'estero. Questo la dice lunga sulla qualità dell'offerta della scuola percepita dagli italiani. C'è uno scollamento, infatti, fra il piano delle retoriche sull'istruzione, scrive Giuseppe Roma, direttore del Censis, e la realtà della scuola. Così mentre si è deciso di ampliare a dismisura tutti i parametri dell'offerta a discapito della qualità, oggi si è costretti a fare marcia indietro ridimensionando l'offerta, senza che si ravvisino nel contempo segnali di una conquista di nuove qualità. In altre parole, la scuola è in depressione. Non sorprende, dunque, che più della metà degli insegnanti italiani se potesse fuggirebbe dalla scuola. «Il 50% degli insegnanti italiani della scuola secondaria di secondo grado non rifarebbe la stessa scelta professionale e nelle scuole degli altri ordini e gradi la percentuale rimane superiore ad un terzo». Questo perché, spiega il Censis, il 69,4% degli insegnanti ritiene che la professione abbia scarso riconoscimento sociale, il 53% che non beneficia di adeguata progressione economica, mentre l'82% ritiene impossibile realizzare gli obiettivi primari dell'istruzione che sono l'educazione ai valori e alla convivenza civile. Questo a fronte di un 53% dei docenti che dichiara di aver scelto la professione per vocazione. Ma i nodi critici vengono al pettine soprattutto nella relazione con gli studenti. Connotati per il 74% dei docenti dall'arte di arrangiarsi, per il 68,5% da pressappochismo e per il 69% da scarso senso civico. Una debacle per la generazione di studenti che per tre quarti sarebbero caratterizzati da incompetenza diffusa e da un modo approssimativo di accostarsi allo studio. Un fenomeno che apre uno squarcio sociologico sul cosiddetto fenomeno dell'analfabetismo di ritorno degli studenti che arrivano alle scuole secondarie che a malapena riescono a tenere in mano una penna e che hanno sempre a scrivere un tema. Siamo al canto del cigno? Forse no. Quando dal piano culturale si scende a quello umano, infatti, è proprio la relazione con gli studenti che è ancora in grado di fare la differenza fra una scuola parcheggio e un'esperienza che segna per tutta la vita. Secondo i docenti neoassunti della secondaria di secondo grado, che pure rilevano problemi, nel 54% dei casi con la scarsa motivazione, nel 50% con i bassi rendimenti e nel 40% con la disciplina degli studenti, alla fine è proprio il rapporto umano con gli studenti che costituisce la principale fonte di gratificazione. E allora è da qui che bisognerebbe ripartire per ridare contenuto efficace alla stessa funzione dell'insegnamento. «Nella scuola», scrive De Rita, «l'unica via di salvezza è la capacità relazionale fra insegnanti e alunni, non certo la valutazione in base ai test, non certo quella dell'aumento della competitività dei ragazzi, non quella di sostituire la vecchia logica della formazione». L'anima scolastica, prosegue De Rita, nata nel 1870, «oggi è un'anima morta: tutto quello che cerca di sostituirla – il merito, la valutazione, il profitto, la competitività, le nuove materie di insegnamento – sono tutte pezze a colore, perché l'unica salvezza della scuola è nell'aumento della relazionalità». |