SCUOLA

De Mauro, Moratti o Fioroni,
a queste Indicazioni manca un "padre"…

Maria Pia Babini il Sussidiario 3.7.2012

Conosco abbastanza bene la scuola reale. Mi si potrebbe definire una pedagogista “sul campo”. È dal mio osservatorio quotidiano che avanzo alcune considerazioni sulla Bozza delle Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione.

Svolgo la professione di coordinatrice pedagogica di scuole dell’infanzia paritarie a gestione privata, con responsabilità del complessivo servizio di coordinamento pedagogico (che interessa 93 scuole infanzia) e consulenza diretta ad una quindicina di istituzioni.

Le richieste che le scuole mi rivolgono riguardano la formazione sul piano educativo e didattico; le azioni inclusive rispetto a disabili, stranieri, disagiati; la consulenza sull’organizzazione ed il governo del personale; la produzione di strumenti didattici, la documentazione.

Il lavoro di rete implica azioni di mantenimento dei contatti istituzionali con scuole di differente gestione (statale e comunale); realizzazione di percorsi di continuità; raccordo coi servizi sociali e sanitari e con gli istituti di ricerca; valutazione e promozione della qualità complessiva dell’offerta scolastica prestata.

Tutto ciò significa percorrere la scuola nel quotidiano, vedere gli insegnanti all’opera coi bambini e con le famiglie di oggi, constatare la complessità e la delicatezza del compito educativo e formativo che la scuola reale svolge quotidianamente.

Concepisco il punto di sintesi di questo lavoro nell’azione di riconoscimento: rilevare l’esistente e riconoscerlo, nel senso di coglierne ed approfondire il significato. Ciò significa dar credito a ciò che si sta già attuando nelle realtà scolastiche, per valutare la conferma di alcuni aspetti, il potenziamento di altri e le prospettive di cambiamento migliorativo.

Venendo alle Indicazioni: gli ultimi 15 anni sono stati caratterizzati da stagioni di consultazioni e riforme. Davvero una manciata di anni è poca cosa a fronte di una scuola, come quella dell’infanzia, che ha una storia più che centenaria (la prima “sala da silo” a Bologna venne aperta nel 1847; è attiva ancor oggi come scuola dell’infanzia paritaria). A pochi anni l’una dall’altra sono susseguite, fino a sovrapporsi, le riforme scolastiche che prendono nome dal ministro dell’Istruzione che le ha promulgate: i curricula di De Mauro del 2001; le Indicazioni per i Piani personalizzati di Bertagna/Moratti del 2004, le Indicazioni per il curricolo di Fioroni del 2007, oggi le omonime Indicazioni di... Già, di chi? La paternità “riservata” di un’oscura commissione tecnica, senza una dichiarata assunzione di responsabilità anche politica, tradisce un giudizio di opportunità e suscita immediata diffidenza.

Si profila, in modo schivo e poco appariscente, la bozza delle “nuove” Indicazioni, affidato ad una Circolare ministeriale ed all’ennesimo consultazione on line, nel mese di giugno (cioè di chiusura della scuola caratterizzato da tanti impegni istituzionali e didattici), consultazione “necessariamente breve” - anche se poi prorogata al 7 luglio: perché poi? Che fretta c’è? Non sarebbe più opportuno attivare un più largo dibattito e confronto sugli esiti del precedente monitoraggio maggiormente socializzati e fruibili dalle insegnanti?

 

 

1. La prima osservazione riguarda l’esame stesso, che più lo si fa più dimostra la sua inefficacia a realizzare l’obiettivo per cui è stata varata l’attuale formula. L’obiettivo era altamente positivo: una valutazione giusta delle qualità degli studenti, così che finalmente si potesse premiare il merito. Non è quello che sta avvenendo, proprio perché gli insegnanti spesso non sanno che cosa sia il merito e applicano pedissequamente un meccanismo. In questo modo viene premiato la ripetizione delle nozioni, e questo diverrà ancor più stringente con una terza prova Invalsi su tutto il territorio nazionale.

Bisogna trovare un modello d’esame diverso da quello attuale che valorizza chi ha imparato a fare un taglia e incolla delle conoscenze. Sono la genialità, la critica, la capacità inventiva che devono essere messo al centro dell’esame. Oggi, invece, sono le prime qualità ad essere penalizzate! Basta pensare alle tracce della prima prova scritta così come è strutturata oggi, che dissuadono gli studenti dal cimentarsi in un lavoro creativo, in cui mettere il meglio della loro personalità. Perché non torniamo al vecchio tema? Perchè non mettere ogni candidato davanti al foglio bianco e armato della sola sua genialità?

E che dire della presentazione delle “tesine”, che dovrebbe essere il fulcro del colloquio, e a cui mediamente si riservano dieci minuti come scotto da pagare al regolamento degli esami? Invece nelle tesine si vede se uno studente ha messo in gioco sé stesso oppure ha fatto un mediocre lavoro di ricopiatura di tesine preconfezionate. Come sarebbe innovativo un colloquio solo sulle tesine, con gli studenti chiamati a verificare le loro capacità critiche e rielaborative e gli insegnanti sfidati a giudicarle! Sarebbe la fine dell’insegnante che chiede quando è morto Napoleone, per lasciar posto ad un insegnante che si confronta con un lavoro critico fatto da uno studente o una studentessa.

2. Se la formula deve essere cambiata, e al più presto, c’è una seconda osservazione da fare che è decisiva. L’esame che è stato inventato pretendeva di sostituire l’insegnante con dei meccanismi perfetti, così che a prove perfette corrispondessero giudizi perfetti, indiscutibili. Un fallimento su tutta la linea. E meno male: gli esami in corso dimostrano che la scuola non può togliere di mezzo l’umano, perché è dell’umano che essa vive. Sia nel bene, sia nel male.

Umane sono le ingiustizie di tanti insegnanti che rovinano con il loro modo di giudicare o di interrogare l’ultimo atto di uno studente di scuola superiore, umana è la capacità di tanti insegnanti che cercano di cogliere il valore di ogni candidato all’esame così che possa emergere nella sua particolarità. Per valutare c’è bisogno di uomini e donne che impegnino la loro sensibilità, che sappiano “sfondare” la struttura della loro disciplina per cogliere la tensione alla conoscenza che ogni studente o studentessa porta con sè. In questo modo l’esame di Stato sarebbe affidato alla libertà di insegnanti che possono viverlo come occasione per sé, oppure come applicazione burocratica di un arido meccanismo. E tornerebbe ad essere una vera sfida.