Il grigio rigore dell’esame Pietro Raboni Il Fatto Quotidiano, 7.7.2012 Non so se la decisione, di tredici anni fa, di sostituire le tracce tradizionali del tema di maturità con la formula ancora in vigore attualmente (che prevede la fornitura ai maturandi di una corposa documentazione da vagliare e utilizzare nell’elaborazione del tema) nascondesse una sopraggiunta consapevolezza di un decadimento culturale in atto («se non diamo a ‘sti asini qualcosa da copiare, qualche idea, cosa potranno mai scrivere!?») o, piuttosto, l’idea che fosse meglio fornire ai giovani in procinto di affacciarsi al mondo reale degli indirizzi più precisi («se non gli diamo una strada tracciata chissà cosa sono capaci di inventarsi»). Certo è che da quando questa scelta ha preso piede, dal 1999 appunto, ci si è spesso trovati di fronte, negli esaltanti pomeriggi afosi dedicati alla correzione collegiale degli elaborati, a lavori molto simili tra loro, perché ispirati dai medesimi documenti, con una forte riduzione dell’apporto personale, dell’originalità. «Ma sono tutti uguali – diceva correggendo le prove d’esame la collega Bullan l’altro giorno mentre girava nervosamente il cucchiaino nel caffè – collegano i documenti, li riassumono e hanno finito il tema. Che noia!» Penso che sarebbe meglio tornare a delle tracce più concise, lasciare che lo studente, di fronte al protocollo da riempire, debba fare i conti «solo» con quel che trova nella propria testa. In fondo dare delle tracce guidate é un po’ come mostrare sfiducia verso chi deve dimostrare la propria maturità (in questo senso é da accogliere con gioia la percentuale alta di maturandi che quest’anno ha scelto la traccia tradizionale, senza documenti aggiuntivi; una sorta di ribellione all’omologazione). Tutto sommato é molto più interessante ribaltare la prospettiva e cercare di leggere nelle tracce l’impronta di questo o quel ministro, il segno di un governo. E’ raro, essendo il materiale piuttosto corposo (si è arrivati anche a dieci pagine), che le scelte ministeriali mantengano un tono neutrale e non approfittino di questa grande occasione per inviare a tutti i diciottenni italiani qualche «velato» messaggio politico. Così il testo dei temi diventa un formidabile cannocchiale che, girato al contrario, ci permette per un attimo di entrare nelle stanze del potere, di carpire i desideri intimi dei governanti. In fondo la Maturità è uno degli ultimi riti di passaggio che rimangono nella decadente civiltà occidentale ed é in tutti il desiderio di parteciparvi in qualche modo. Così, se addirittura scontato era stato ritrovare la Resistenza Italiana tra i titoli con l’arrivo di D’Alema a Palazzo Chigi, più scioccante, ma sintomatico, è stato rinvenire nei nove lunghi anni di gestione berlusconiana (con Moratti e Gelmini) un crescente revisionismo storico culminato, con le tracce del 2009 e 2010, in una vera e propria apologia del fascismo. Grande era, dunque, l’attesa per le tracce targate Profumo; non tanto per cercarvi il profilo liquido del ministro quanto per cogliervi, se possibile, qualche goccia essenziale del pensiero montiano; e devo dire che l’attesa non é stata delusa. Intanto una certa parsimonia, almeno nell’uso della carta: solo sei pagine, poche immagini. Per la prima volta da quando è in uso questa formula è del tutto assente la poesia, forse che l’inesauribile oscillazione tra suono e senso rischiasse di distrarre troppo i maturandi rispetto ai temi concretissimi sul piatto. Si preferisce una delle pagine in prosa meno significative di Montale dove, un po’ snobisticamente, assumendo quasi i panni del suo «uomo che se ne va sicuro» il poeta ricama sul concetto del tempo. Anche qui è presente, comunque, il tema del lavoro. Il piatto forte sul piano dei contenuti é appunto la crisi, la crisi dei giovani cui si accosta, come simbolo dell’immaginario, il labirinto, tanto perché sia ancora più chiaro che il futuro é tutt’altro che lineare. Al di là di due spunti molto «scolastici», quello sulle responsabilità della scienza e quello sullo sterminio degli ebrei, tutte le tracce sembrano scientemente collegate in modo da portare il giovane, attraverso numeri e giudizi valutativi, a guardarsi attorno smarrito in mezzo a una spaventosa crisi che lo vede principale protagonista e vittima designata. La massima finale di Paul Nizan, «Non permetterò mai a nessuno di dire che questo (dei vent’anni) è il periodo più bello della vita» si chiude come una pietra tombale a sigillare il testo. C’è da stupirsi che, a questo punto, qualche giovane studente non sia andato in bagno con una lametta; forse è stato solo il divieto di non poter uscire dall’aula per le prime due ore. Ma quale strada si propone al giovane dopo averlo scientificamente demoralizzato, dopo avergli descritto la desertificazione che lo attende? Beh, intanto l’importante è che sia mobile, che non faccia troppi drammi se viene licenziato (il posto fisso viene presentato come un ostacolo allo sviluppo economico, come un’onta che grava sul nostro modello occupazionale) senza però dimenticare il proprio ruolo sociale (verrebbe da dire imprenditoriale), il valore di creare e lasciare qualcosa. L’unica immagine positiva proposta, quella di Steve Jobs, geniale e trasgressivo in vita ma, oramai, come san Francesco dopo la sua morte, talmente inglobato dal sistema da diventarne l’icona, conclude l’offerta. Si va insomma dal rigoroso grigiore al grigio rigore: una traccia che quasi si antropomorfizza nel volto di Monti, nella sua bocca stretta da salvadanaio. Mi auguro che i giovani abbiano saputo colorare un po’ i concetti, e che abbiano saputo inserire soprattutto qualche dubbio, qualche alternativa a questa che sembra la strada unica concepibile, cioè quella della nostra totale sottomissione a un sistema economico.
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