Dopo il concorso/corrida,
ci sarà un futuro per dirigenti scolastici?
di Ivana Summa Educazione & Scuola
31.7.2012
Non vi pare che sia
giunto il momento di fare qualche seria di riflessione sul Concorso
per dirigenti scolastici che si sta concludendo, in quasi tutte le
regioni, proprio in questi giorni di canicola leonina? Taciamo
volutamente sui numerosi ricorsi amministrativi non ancora conclusi,
sul dimezzamento dei posti messi a concorso con il D.D.G. 13 luglio
2011, sulla preselezione realizzata con più di 5.000 astruse
domande, sulla nomina dei membri delle commissioni e della correlata
incompetenza esperta e via di questo passo. Se scorriamo velocemente
tutto l’iter concorsuale, ci si accorge che esso è basato – con una
ferrea coerenza che attraversa tutte le fasi compreso il colloquio
orale - sull’idea che per diventare dirigente scolastico occorra una
“testa piena”, piuttosto che una “testa ben fatta”. Una testa piena
di minutaglie psico-pedagogiche e di tecnicismi pseudomanageriali,
per tacere della mera conoscenza mnemonica di leggi e leggine che
nulla hanno a che vedere con la padronanza dei concetti fondamentali
del diritto costituzionale, pubblico, amministrativo, ecc..
Ed ecco che decine di
migliaia di insegnanti, privi di qualsiasi forma di carriera, hanno
deciso di partecipare ad un concorso che, rispetto al precedente del
2004, si presenta irto di ostacoli. Alcuni insegnanti, carichi di
titoli (doppie e triple lauree, master, attività di aggiornamento,
incarichi istituzionali) lo hanno affrontato pieni di speranze
meritocratiche, tanto evocate in questi ultimi anni; altri, dopo una
frettolosa preparazione mirata esclusivamente al superamento delle
prove, hanno affrontato il concorso confidando nella fortuna,
peraltro da tutti ritenuta componente essenziale per concludere
l’iter con successo.
E’ inutile sottolineare
che gli uni e gli altri possono essere iscritti nella categoria
“dilettanti allo sbaraglio”, considerato che il concorso assomiglia
molto allo storico gioco radiofonico e televisivo che chiamava alla
sfida chi aveva il coraggio di esibirsi, a prescindere dal possesso
di competenze di base e trasversali per entrare in scena.
Rinunciando ad analogie
divertenti ma amare, entriamo decisamente nel discorso che più ci
preme e che riguarda il reclutamento dei dirigenti scolastici dopo
l’attribuzione dell’autonomia alle scuole e della dirigenza ai capi
d’istituto. La legge, come è noto, prevede un profilo – specificato
chiaramente nell’art. 25 del D.Lgvo n. 165/2001 – che in
quest’ultimo decennio si è profondamente evoluto a seguito del
disegno riformistico contenuto nella cosiddetta riforma Brunetta del
2009. D’altra parte, la concreta interpretazione, in più di un
decennio, di una funzione così articolata e complessa ha visto
all’azione dirigenti scolastici che, nella stragrande maggioranza
dei casi, dopo aver messo velocemente da parte la connotazione
educativa della dirigenza scolastica, si sono trasformati in
burocrati attenti a non commettere errori, intenti ad applicare le
leggi – comprese quelle riguardanti gli assetti ordinamentali,
curriculari e valutativi- rinunciando ad implementare processi di
innovazione e miglioramento della qualità della didattica, di cui il
nostro sistema scolastico ha un irrinunciabile bisogno e che possono
essere realizzati soltanto facendo costante ricerca educativa,
didattica, valutativa.
Da queste
considerazioni emerge con chiarezza come non ci sia ancora una un
modello professionale di dirigenza scolastica in grado di connotare
in modo specifico le competenze educative, giuridiche ed
organizzative più adeguate, in base alle quali preparare e poi
selezionare i docenti che aspirano a guidare una scuola non per una
scelta di comodo o ispirata ad un generico cambiamento o, peggio, ad
un desiderio di fuga dall’insegnamento, ma perché motivati a dare un
personale contributo “di servizio” per migliorare la qualità del
nostro sistema scolastico.
Questa idea/proposta
può sembrare presuntuosa e velleitaria, ma così non è se si pensa
che tutte le ricerche che correlano la qualità della leadership
scolastica con la qualità delle scuole ci dicono che l’ apporto del
capo d’istituto – comunque venga denominato – sia particolarmente
significativo, anzi rappresenti il valore aggiunto di una scuola. Il
sociologo francese Alaine Touraine, nella sua relazione tenuta al
Convegno Nazionale del C.I.D.I. del marzo 2007 a Roma, riferendo gli
esiti di una sua ricerca comparativa tra due collége della banlieu
parigina, ha messo in evidenza come le capacità di guida del
dirigente di una delle due scuole abbiano saputo creare forte
motivazione fra gli insegnanti sostenendoli nella difficile sfida
educativa cui erano chiamati, operando in un contesto sociale molto
difficile. Come dire, non di soli ordinamenti e curricoli vive e
cresce la qualità educativa delle scuole, perché sono altrettanto
importanti le persone che vi lavorano e soprattutto la capacità di
un capo di istituto di mettere in moto le risorse professionali
esistenti.
In Italia non sono mai
state realizzate ricerche focalizzate in questo ambito[1],
eppure tutti noi possiamo agevolmente constatare come
l’interpretazione di ruolo da parte del singolo dirigente scolastico
- a prescindere dalle provenienze concorsuali – sia determinante per
le nostre scuole, considerata la cornice normativa ed istituzionale
entro cui si muovono, che provoca spinte sia verso la
burocratizzazione, che verso l’“anarchia organizzativa”[2].
Oggi, osservando il
nostro sistema scolastico, abbiamo la percezione nitida che non
esista una visione condivisa della funzione del dirigente
scolastico, radicata dentro una più vasta funzione istituzionale
riconosciuta irrinunciabile per la qualità delle scuole. Soltanto in
questa prospettiva assume rilevanza la scelta – contenuta nell’art.
25 del D. Lgvo n. 165/2001 – di selezionare questa particolare
tipologia di dirigenti esclusivamente tra il personale docente al
quale, peraltro, non possono essere richieste, naturaliter,
competenze amministrative ed organizzative.
Come mai allora, in più
di un decennio, si è rinunciato a creare specifici percorsi di
sviluppo professionale di un certo numero di docenti ai quali far
acquisire quel quid specifico della dirigenza scolastica, che
altrimenti viene lasciato al caso o alle aspirazioni personali?
Una prima causa è da
individuare nella progressiva involuzione e/o implosione subita
dall’autonomia scolastica durante il suo primo decennio, sballottata
da innumerevoli e imprevedibili ondate di cambiamento, da un anno
scolastico all’altro, in direzioni spesso contrastanti. I
cambiamenti voluti dalle riforme di questi ultimi dieci anni,
infatti, hanno chiamato i dirigenti scolastici a far “applicare” ai
docenti le nuove indicazioni didattiche ed ordinamentali quasi
fossero dei “semplici” caporali di giornata, dimenticando che le
leve di gestione privilegiate (e privilegiabili) dentro una scuola
davvero autonoma sono altre: la collegialità tecnico-professionale,
la partecipazione, la ricerca e la sperimentazione, perché le scuole
sono innanzitutto “comunità di pratiche” con le loro routines e
conoscenze, con i loro valori e le loro “storie di vita”.
Una seconda causa va
ricercata nella sottovalutazione della funzione dirigenziale nelle
pubbliche amministrazioni, ancorata, nonostante vent’anni di
riforme, a vecchie interpretazioni di ruolo, più attenti agli
aspetti formali e procedurali che agli aspetti connessi con
l’attivazione di processi e con il raggiungimento di risultati.
Abbiamo motivo di ritenere che il vecchio modello dirigenziale si
possa addirittura rafforzare con le ultime riforme del 2009 che, pur
introducendo sistemi di premialità e di performances affidati alla
dirigenza, di fatti comporteranno cambiamenti di facciata,
sovrapproduzione di documentazione, salvo lasciare intatti ed
irrisolti tutti i problemi connessi con la gestione delle risorse
umane nel pubblico impiego.
Ma quale dirigenza scolastica vogliamo?
Nella prospettiva
appena tratteggiata, anche il dirigente scolastico meglio attrezzato
sul piano delle conoscenze corre il rischio di utilizzarle a
prescindere dal fatto che dirige innanzitutto una scuola e non
ufficio amministrativo qualsiasi.
Come afferma L.
Benadusi[3], la scuola è
un’organizzazione sui generis, perché le dimensioni strutturali e
formali sono meno importanti di ciò che vive al loro interno: i
valori, le tradizioni, le culture, i linguaggi, i significati e le
modalità delle interazioni soggettive. Questi aspetti, che il noto
sociologo dell’educazione definisce “fluidi ed immateriali”, debbono
essere pienamente compresi prima di essere fatti oggetto di
politiche gestionali.
Ne deriva che
l’interpretazione di un ruolo istituzionale come quello del
dirigente scolastico non può essere soltanto il risultato della
cornice normativa specifica e generale entro cui è tenuto ad
esprimersi, perché è agito in un’arena[4]
sociale che, non essendo determinabile, impone capacità ermeneutiche
(comprendere il senso di ciò che avviene) ed euristiche (agire come
un ricercatore competente).
Assume poi un
particolare rilievo il contesto sociale, interno ed esterno alla
scuola, e tutte le aspettative espresse nei confronti di una
funzione che viene troppo spesso vista e vissuta in termini di
semplice gestione del funzionamento quotidiano ma anche come simbolo
di un potere estraneo ed intrusivo.
Se si scorre la
letteratura organizzativa sulla dirigenza scolastica – cresciuta in
Italia dall’inizio degli anni ’80 parallelamente alla richiesta di
autonomia per i singoli istituti scolastici – si può rilevare come
si sia molto riflettuto sulle competenze da richiedere a tale figura
fino all’avvento dell’autonomia e della dirigenza. Sia pure con
accenti diversi, si è andato delineando, in quegli anni di fermento
politico, culturale e professionale, la figura di un dirigente
scolastico che agisce, nel rispetto della professionalità docente,
in un’organizzazione scolastica dotata di autonomia funzionale,
ispirandosi ad un profilo che riesce a coniugare aspetti
attribuibili al management con aspetti riferibili alla leadership.
L’una e l’altra connotazione non sono da ritenere antitetiche ma
complementari, in quanto entrambe fanno riferimento a competenze di
coordinamento, di controllo, di programmazione, di guida, chiamando
in causa modalità di gestione ispirate alle teorie organizzative
piuttosto che a modelli burocratici che non possono garantire, per
la loro stessa natura, né efficienza né efficacia. Ma quali sono le
differenze sostanziali, considerato che sia il manager che il leader
lavorano con le persone convogliando gli sforzi dei singoli e dei
gruppi verso gli obiettivi organizzativi? La differenza può essere
colta in un tratto distintivo: il management si confronta con la
complessità e la sua efficacia si misura con il grado di ordine e
coerenza che riesce a realizzare a livello organizzativo; al
contrario, la leadership si misura con il cambiamento e, dunque,
agisce indicandone la direzione e la visione. E, tuttavia, non
esiste un buon manager che non sia anche un buon leader.
Dunque, questo è il
modello professionale che riteniamo debba essere ripreso anche sul
piano culturale per essere poi assunto – sul piano normativo e
concorsuale- come riferimento per il dirigente scolastico “di nuova
generazione”, collocato dentro una concezione di scuola come
comunità di persone che agiscono come attori politici (perché fanno
delle scelte responsabili) e professionali, in quanto possiedono
competenze di alto livello e di alta responsabilità .
Facciamo in modo – fin
da subito - che la prossima volta si scelgano modalità di formazione
e di selezione dei docenti che rispondano a questa idea di dirigenza
scolastica.