analisi
Scuola, università e formazione professionale,
ecco su cosa dovremmo puntare
Walter Passerini
La Stampa,
3.7.2012
milano
Possiamo fare come lo struzzo e nascondere la testa in quei 98mila
nuovi occupati in più a maggio, ma è una pagliuzza rispetto alla
trave della disoccupazione giovanile tra i 15 e i 24 anni che ha
polverizzato ogni record (36,2%) ed è lì a rivelarci impietosamente
tutti i nostri fallimenti. Né può consolare gli avventizi neofiti
del mercato del lavoro quel 10,5% di disoccupati under 24 rispetto
alla loro fascia di età, se lo confrontiamo con l'altra faccia della
medaglia dell'occupazione, che sono i giovani occupati tra i 15 e i
24 anni, da tempo in discesa libera, che hanno raggiunto
drammaticamente quota 18,6%. Vuol dire che più di quattro giovani su
cinque sono fuori dal mercato e dal processo produttivo, nel
migliore dei casi studiano o sono nella schiera dei Neet (Not in
employment, education or training) o hanno rinunciato a cercare.
Maldestri campioni del made in Italy sostengono che noi siamo meglio
messi in Europa, che anche gli altri soffrono.
I giovani senza lavoro nel Vecchio continente sono oltre 5,5
milioni. Se in Italia oltre un giovane sui tre che cercano un lavoro
è disoccupato, ci battono solo Grecia e Spagna, i campioni dello
spread (oltre il 50% di disoccupazione giovanile), mentre i più
virtuosi sono i tedeschi, gli austriaci e gli olandesi, compresi tra
l'8 e il 9% di disoccupazione giovanile. Forse dovremmo mandare i
nostri governanti degli ultimi 10-15 anni a studiare le politiche
deipaesi più amici dei giovani e capiremmo che in quei paesi gli
under 25 sono la priorità. In Italia invece sono il segno
dell'impotenza, la cartina di tornasole della cattiva volontà di una
classe dirigente di gerontocrati, legati come cozze ai loro
privilegi. Certo l'anagrafe alla fine vincerà, ma intanto lo spreco
di speranze, di risorse e di futuro grida vendetta e dovrebbe farci
vergognare. Eppure i rimedi, il pentagramma delle cose da fare è
sotto gli occhi di tutti. Le voci dell'agenda si chiamano scuola,
università, orientamento, lavoro, culture. Il distacco della scuola
dal mondo del lavoro è abissale. Certo vi sono esempi eroici di
contatto tra mondi che non si amano, ma sono ancora una goccia
rispetto ai bisogni. Stage, concorsi, alternanza, apprendistato sono
strumenti che in altri paesi rappresentano la norma, mentre in
Italia suscitano lo scherno degli scettici. Le università per legge
dovrebbero fornire servizi di placement ai propri studenti, ma
quelle che lo fanno davvero si contano sulle dita di due mani.
L'orientamento è una cosa troppo seria per essere lasciato nelle
mani delle famiglie, degli insegnanti o delle compagnie di giro, che
stipano i ragazzi in sale cinematografiche altrimenti vuote e
infliggono loro lezioni sul nulla.
I disorientati salgono in cattedra e pontificano sermoni che sono elio
allo stato puro, mentre i ragazzi non vedono l'ora che squilli la
campanella. Dovremmo cominciare a capire che l'orientamento si
divide in tre, dovremmo ricominciare da tre bussole per i giovani:
una riguarda l'orientamento scolastico, una l'orientamento
professionale, l'altra la relazione d'aiuto con i singoli soggetti,
che non sono categorie ma persone. Invece, cinicamente, mandiamo i
giovani allo sbaraglio, con la scusa che tanto prima o poi dovranno
imparare a nuotare, o a camminare con un cappuccio in testa. Un
malsano sadismo pedagogico si sostituisce alla relazione d'aiuto,
che richiede fatica, rispetto, competenza. Infine, il lavoro. Che
dire di una riforma del lavoro che giustamente punta le sue carte
sull'apprendistato quando le regioni sono inadempienti e si
trincerano dietro un federalismo di facciata. Che dire del modello
culturale della formazione professionale in Italia che, unico paese
in Europa, la divide in 20 sottosistemi sordi, tra loro gelosi e
corporativi.
Il risultato è quello di allontanare i giovani dal lavoro e dal lavoro
manuale, da quelle tradizioni industriali e artigianali che
continuano a reclamare posti vacanti. Che dire di una visione del
lavoro ottocentesca, che riesce a immaginare solo mestieri da
subordinati e dipendenti. Mentre il futuro è degli intraprendenti,
di coloro che se lo costruiranno, di quelli che, nonostante i troppi
cattivi maestri, preferiranno fare da soli.