L'errore delle Indicazioni? Mettere i bambini nell'Ingranaggio Irene Achil il Sussidiario 5.7.2012 In chiusura d’anno scolastico quest’anno c’è una novità: in un periodo di per sé già impegnativo e carico di adempimenti, dobbiamo fare i conti anche con la consultazione che il Ministero ha indetto, proprio in questo mese di giugno (con proroga al 7 luglio), sulla Bozza delle Indicazioni nazionali per il curricolo. È stato chiesto alle scuole dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione di far pervenire il proprio parere in merito, compilando il Questionario predisposto. Vincendo a fatica la tentazione di cedere alla stanchezza e di lasciar correre (ma forse è proprio su questo che gli estensori della Bozza contavano), come insegnanti abbiamo preso in mano il testo della Bozza (che riscrive le Indicazioni tutt’ora in vigore) e del Questionario. Prima di entrare nel merito dei contenuti si impone una considerazione sul metodo utilizzato. Perché una consultazione così frettolosa e “blindata” su temi tanto importanti che necessitano invece di un ampio dibattito? Lo strumento individuato per la raccolta della voce delle scuole suscita molte perplessità sugli intenti con cui è stato predisposto. Il Questionario infatti, costringendo gli interpellati a muoversi tra risposte chiuse e per lo più relative ad aspetti di forma e non di contenuto, chiede un giudizio sulle “modalità di confezionamento” delle Indicazioni ma non permette una valutazione sui contenuti. Una società civile non può accettare metodi così antidemocratici. È perciò fondamentale che ci si fermi e venga dato spazio ad un reale dibattito che coinvolga tutti i protagonisti della scuola, che nel frattempo continua a riferirsi alla normativa in vigore. Del resto l’attuale governo tecnico non è forse interpellato da altre urgenze su cui concentrare la proprio azione? Perché c’è questa fretta di concludere? Entrando nel merito dei contenuti perplessità e domande non mancano, soprattutto alla luce della propria esperienza di scuola. Lavoro nel mondo della scuola da 33 anni e da 22 come coordinatrice di scuola dell’infanzia paritaria. Quale spazio trova nella Bozza la nostra esperienza di scuola? Quale riconoscimento per i protagonisti di questa avventura educativa? Queste le prime due domande con cui abbiamo interpellato la Bozza e le Indicazioni Fioroni, dopo aver ripercorso la nostra storia. La nostra scuola dell’infanzia è nata nel settembre 1990 per iniziativa di un gruppo di famiglie e restano sempre attuali le parole con cui allora veniva presentata: “Crediamo fermamente che un’amicizia profonda e sincera tra persone adulte sia la fonte più grande e più viva dell’educazione per noi e per i nostri figli. L’esigenza di essere accolti, la ricerca del significato di ciò che ci circonda e degli avvenimenti della vita, la passione per la bellezza e per la verità, l’esperienza della condivisione sono i cardini su cui poggia l’educazione cristiana, ma anche su cui possono ritrovarsi tutti coloro che si pongono con serietà il problema educativo”. La nostra scuola, sorta come affermazione del diritto delle famiglie di scegliere e di creare un luogo che risponda al bisogno educativo delle nuove generazioni, si è quindi inserita nella ricca tradizione della scuola dell’infanzia italiana che, come si legge nelle Indicazioni di Fioroni, “oggi si esprime in una pluralità di modelli istituzionali e organizzativi promossi da diversi soggetti”. Di questa pluralità si è però persa traccia nella Bozza, che presenta l’istituto comprensivo come unico modello pedagogico-organizzativo. Perché questo colpo di spugna? Perché negare “un patrimonio pedagogico riconosciuto in Europa e nel mondo”, sostituendolo con un unico modello imposto dallo Stato a tutto il sistema? E come si concilia il riconoscimento di un unico modello con “il rispetto e la valorizzazione dell’autonomia delle istituzioni” di cui pure il testo parla? La nostra scuola, non facendo parte di un istituto comprensivo, non trova spazio nella Bozza. Eppure c’è, come ci sono tante altre scuole dell’infanzia paritarie: volute e scelte liberamente dalle famiglie, rappresentano un esempio concreto di cittadinanza attiva. La preoccupazione che, fin dai primi passi, ha guidato l’esperienza della nostra scuola è stata quella di assicurare una continuità educativa tra vita familiare ed esperienza scolastica. L’iniziativa originaria dell’educazione compete infatti alla famiglia. Essa è il primo luogo in cui un’esperienza e una concezione della vita si comunicano da una generazione all’altra. L’unità e la cooperazione con i genitori è quindi la condizione fondamentale perché sia possibile un’esperienza educativa. Il bambino ha la sua radice e il suo riferimento principale nella famiglia. È lì che impara, in un contesto esperienziale, a vivere e a stare con gli altri. È lì che impara le grandi conquiste della vita: camminare e parlare. All’ingresso nella scuola dell’infanzia ogni bambino ha già, quindi, una sua storia personale e questo gli consente di possedere un patrimonio di atteggiamenti e capacità. È un bambino attivo, curioso, interessato a conoscere e capire, capace di interagire con adulti diversi dalle figure familiari perché in famiglia gli è stato comunicato che questo è possibile. Accogliere un bambino significa accogliere la sua famiglia. Per un bambino infatti la sua famiglia è tutto: è il luogo della sua appartenenza e la fonte della sua identità. Il bambino vive della relazione che noi viviamo con la sua famiglia ed ha bisogno che la sua famiglia venga riconosciuta ed accolta. Non riconoscere la sua famiglia, infatti, vuol dire non riconoscere lui. La scuola dell’infanzia si pone come primo aiuto sistematico alla responsabilità educativa della famiglia. In generale nella Bozza il soggetto-genitori rischia di essere sempre più relegato in posizione subalterna rispetto alla scuola e il concetto di appartenenza alla propria famiglia tende a sfumare. Non si tratta infatti di far occupare alla famiglia un posto in un ingranaggio ma di riconoscerla ed accoglierla come soggetto originale, che sta all’origine dell’identità e dell’apprendimento del bambino. Non è la famiglia che deve entrare nell’ingranaggio adattandosi, ma è la scuola che deve darsi una forma capace di riconoscere e accogliere la famiglia, individuando modalità e strumenti adeguati. Solo così non verrà meno al suo essere scuola del bambino. Non si capisce poi come, “scivolando” sul riconoscimento dell’appartenenza del bambino alla famiglia, si possa promuovere in lui il senso dell’appartenenza ad una comunità sempre più grande. Alle radici della cittadinanza non c’è forse la famiglia? Per trovare una presentazione più corretta del rapporto scuola-famiglia bisogna arrivare al paragrafo “Il senso dell’esperienza”, in apertura della parte dedicata alla scuola del primo ciclo, quando si dice: “Di fonte alla complessa realtà sociale, la scuola ha bisogno di stabilire con i genitori rapporti non episodici o dettati dall’emergenza, ma costruiti dentro un progetto educativo condiviso e continuo”. Non si capisce però perché una tale affermazione non abbia trovato spazio in apertura del documento. Solo così avrebbe potuto avere un peso determinante sull’impianto generale del documento. Così com’è risulta ininfluente e riduttiva. |