Verso una SMART school:
strategie per una scuola di qualità[1]
di Giancarlo Cerini Educazione & Scuola
14.7.2012
La scuola dietro la lavagna
Le speranze di una
scuola migliore si infrangono spesso sugli scogli delle politiche
finanziarie restrittive, di una quantità insufficiente di risorse
che il nostro Paese è disposto a riversare verso le sue istituzioni
educative. Non è questione di breve momento, di questo o quel
Ministro del Tesoro, ma di un trend di lunga durata. Come rivelano i
recenti dati dell’OCSE, l’Italia – per quote di risorse destinate
all’istruzione – si colloca al 29° posto sui 34 paesi più
sviluppati, con il 4,8% di ricchezza dedicata all’education
rispetto alla media OCSE del 6,1%. Come mai, nonostante le esplicite
affermazioni di autorevoli rappresentanti dell’establishment
finanziario italiano[2], la spesa per
l’istruzione viene rubricata quasi sempre come un costo (da
contenere) piuttosto che come un investimento (da incrementare)?
Evidentemente non bastano i grandi disegni di riforma approvati
dalle maggioranze del Parlamento, spesso con il ricorso a
rassicuranti voti di fiducia, se poi questi progetti non si
traducono in prospettive di cambiamento realmente praticate dalla
scuola e condivise dalla società. Negli ultimi 15 anni è proprio
mancato questo consenso: chi sta all’interno della scuola non si è
immedesimato nelle riforme di volta in volta approvate (Berlinguer,
2000; Moratti, 2003; Gelmini, 2008)[3],
mentre gli “stakeholder” non si sono dimostrati troppo disponibili a
riconoscere la qualità del servizio reso dal sistema educativo.
Accountability vuol dire fiducia
Non è scattato quel
feeling tra scuola e società che è indispensabile per ottenere buoni
risultati formativi. Moltissime ricerche, infatti, mettono in
evidenza la stretta correlazione tra il contesto sociale e culturale
in cui opera una scuola e i livelli di apprendimento degli allievi.
C’è dunque un fattore “t”, come “territorio” ma anche come
“talento”, “tolleranza”, “tecnologia”, che influisce enormemente
sulla qualità dell’istruzione, fino a determinare un vero e proprio
spread tra territori, città e quartieri. Questo dato è già un
segnale importante per delineare strategie di intervento,
evidentemente di lungo periodo, per ricostruire un rapporto positivo
tra istituzioni scolastiche e comunità, in forma di patto educativo
per una reciproca assunzione di responsabilità.
Ma questa alleanza
scatta solo se la scuola sa farsi “vedere”, se è capace di far
apprezzare il suo valore, se è in grado di testimoniare la sua
qualità, insomma se sa render conto dei propri risultati. E’
scoccata l’ora dell’accountability, come ha scritto il
Governo italiano all’Europa nell’autunno 2011, nello scambio di
lettere con le nostre buone intenzioni di diventare un paese
normale, per capire come funzionano le scuole che producono buoni
risultati e quali sono quelle che invece sono in difficoltà, per
aiutarle a migliorarsi.[4]
Ma non basta indicare i
benchmarks di Europa 2020 per rimettere in moto le
politiche scolastiche, né evocare i pessimi risultati Ocse-Pisa (tra
l’altro differenziati su base regionale) per introdurre un salutare
scossone in molti comportamenti, né adottare unicamente una via
legislativa e ordinamentale “pesante” (le cosiddette riforme di
struttura).
Spesso le grandi
riforme sono preannunciate da roboanti dichiarazioni di principio,
proclami “epocali”, apparati normativi imponenti (decreti,
regolamenti, linee guida, ecc.) che però non riescono a creare
quell’appeal necessario per catturare emozioni, interessi,
energie positive. Da troppo tempo la scuola è ai margini
dell’attenzione della società. Da questa constatazione amara occorre
ripartire, senza scoraggiarsi, trovando anche strade nuove. Insomma
è l’idea che già ha molti proseliti, della “scuola che funziona”[5],
delle tesi contenute nel “manifesto degli insegnanti”[6],
delle molte iniziative che forse ci stanno dicendo che la buona
scuola già c’è, che bisogna saperla vedere, ascoltare, accompagnare
e diffondere.
Le riforme “visibili”
Ma non basta raccontare
questa scuola, occorre re-immaginarla, ri-evocarla, per costruire
aspettative positive nell’immaginario della gente, dei genitori, ma
anche degli studenti, degli insegnanti. Bisognerebbe partire da
alcuni gadget che possono fungere da veicoli mediatori di
una scuola che può cambiare dal basso. Si tratta di lanciare delle
immagini-obiettivo molto concrete, ad esempio:
- uno strumento
musicale per ogni allievo;
- un tablet su ogni
banco;
- una certificazione
linguistica per tutti;
- uno stage, un
viaggio, un’esperienza di lavoro garantita ad ogni ragazzo.
Si tratta di accendere
delle idee-faro per catalizzare energie per il cambiamento, facendo
percepire cosa potrebbe cambiare nella vita quotidiana dei ragazzi
con l’adozione di innovazioni che si materializzano in oggetti.
Saperi da “toccare con mano”
Così, dotare ogni
allievo di uno strumento musicale rappresenta il ripristino di una
attenzione, che si va perdendo, alla dimensione estetica,
espressiva, creativa nella formazione di base (tutta proiettata
sulla dimensione cognitiva). Un rapporto più intenso con la musica
(e più in generale con i linguaggi analogici, corporei, cinestesici,
visivi) è elemento naturale nel vissuto dei giovani, ma offre anche
la possibilità di recuperare un tratto fondamentale della nostra
identità culturale e civile. L’approccio alla musica pratica, più
volte richiamato dal Comitato nazionale per la musica (presieduto
dall’ex Ministro Luigi Berlinguer), consente anche di introdurre
stimoli operativi nella didattica, emblematici per il rinnovamento
dei nostri ambienti di apprendimento. Così come potremmo
sottolineare l’equilibrio tra la dimensione dell’esercizio (della
performance) e quello della espressività, tra l’impegno individuale
ed il confronto con l’ensemble (il gruppo) nella realizzazione di un
prodotto visibile. Quest’approccio va oltre l’attuale collocazione
della musica nel curricolo (con debole valenza nella scuola primaria
e nella secondaria di II grado), o nella filiera specialistica
(scuole medie ad indirizzo musicale e licei musicali), per
interrogarci invece sul posto della musica nella formazione di tutti
i cittadini.
Analogamente potremmo
riferirci all’idea di dotare ogni allievo di un tablet, per
significare il potenziamento delle possibilità di accesso alle
informazioni, di utilizzo di fonti e documenti, di creazione di
scambi e relazioni per la costruzione collaborativa delle
conoscenze, anche qui intercettando “usi e costumi” dei nuovi
barbari (i nostri ragazzi), ma offrendo loro un ambiente riflessivo
indispensabile per non farsi travolgere inconsapevoli dall’estasi
della comunicazione, comunque ed ovunque.
L’acquisizione di
certificazioni linguistiche ricolloca un tema delicato come è quello
della valutazione degli apprendimenti in una dimensione “autentica”,
di apprezzamento delle competenze intese come padroneggiamento
pratico di conoscenze d’uso, in contesti significativi, reali o
simulati, con il pregio di ancorare le abilità acquisite a standard
di riferimento collaudati (il quadro europeo delle competenze), pur
salvaguardando il principio dell’autovalutazione e della personale
consapevolezza delle abilità possedute. Anche in questo caso,
l’immaginario di un risultato “utile” e spendibile (la
certificazione) si sposa con l’innovazione delle pratiche didattiche
e valutative.
Le esperienze di
alternanza scuola-lavoro, gli stages, gli scambi
all’estero, sono altrettante occasioni per recuperare un gap
storico del nostro sistema educativo nel rapporto con la
cultura d’impresa che sta cambiando, con i processi di
internazionalizzazione, con un più stretto legame con la realtà
sociale e produttiva, per svecchiare l’astrattezza dei nostri
profili formativi.
Si può certamente
parlare di curricoli, di indicazioni, di linee guida (e siamo in
presenza di un guardaroba curricolare che si sta rinnovando sia nel
primo che nel secondo ciclo), ma questi documenti – anche nel
migliore dei casi – non riescono a “bucare” l’immaginario
dell’opinione pubblica, oltre che aver perso ogni effetto pratico
tra gli operatori scolastici. Di qui l’idea di trasformare il tema
del curricolo in situazioni di innovazione visibile, anche per
drenare risorse indispensabili per la scuola, attraverso la
compartecipazione degli utenti (l’dea è chiedere 1/3 di risorse ai
genitori, 1/3 agli Enti locali, 1/3 allo Stato), anche per
recuperare quelle risorse “private” che mancano nel budget
dell’istruzione pubblica italiana.
Fuor di metafora, lo
stato di salute della scuola italiana richiede azioni che producano
trasformazioni nel modo di fare scuola, piuttosto che radicali
trasformazioni di ordinamento (difficili da ottenere ed ancora più
difficili da attuare), richiamando tutti i soggetti alle loro
responsabilità. Non è un approccio minimalista, perché implica
comunque cambiamenti incisivi nei comportamenti delle persone e
delle istituzioni.
Le riforme “sostenibili”
Facciamo tre semplici
esempi, riferendoci alle strutture scolastiche, ai modelli
organizzativi, alla cultura professionale. Dei curricoli abbiamo già
detto, attraverso l’esempio degli oggetti mediatori.
La qualità degli
ambienti fisici non può essere rubricata solo sotto le esigenze
della sicurezza degli edifici, della agibilità degli stessi, della
ottemperanza agli standard funzionali di legge (che peraltro
risultano alquanto invecchiati). In gioco è certamente la vetustà
del nostro patrimonio edilizio, con tutto il suo carico di
criticità, come rivelano le annuali indagini di Legambiente e
Cittadinanzaattiva, ma soprattutto l’incoerenza tra la
configurazione della maggior parte delle strutture e un’idea
costruttiva, partecipata, collaborativa dell’apprendimento. Una
“smart” school, come oggi si auspica, richiederebbe spazi per la
ricerca, lo studio (anche per i docenti), il lavoro a piccoli,
gruppi, laboratori, biblioteche multimediali, oltre ad un tessuto
connettivo di servizi, aree di relazione, tempo libero, verso
l’ipotesi di veri e propri campus. Certo, si potranno dotare tutte
le aule di LIM, la banda larga collegherà forse tutti i 42.000
edifici che ospitano scuole, ma resta il grande problema delle
nostre architetture scolastiche, cioè dell’idea di scuola che è
sottesa alla configurazione materiale dei luoghi dell’educazione. La
strategia è duplice, locale-globale: aspettando i nuovi contenitori
“intelligenti”, le aule potrebbero già essere diversamente
strutturate ed organizzate.
Lo stesso approccio
dovrebbe riferirsi alla realizzazione dell’autonomia scolastica:
sono passati oltre 12 anni dal conferimento della “personalità
giuridica” alle singole istituzioni scolastiche (circa 10.500 in
Italia) e dall’applicazione del relativo regolamento (Dpr 275/1999),
con ampi spazi di autonomia organizzativa, didattica, di ricerca e
innovazione. Una fotografia realistica ci direbbe che ben poca di
quella discrezionalità è stata utilizzata: gli orari sono bloccati a
scacchiera, il curricolo non offre margini di opzionalità, i tempi
appaiono rigidi, le forme di utilizzo dei docenti ancora di più (con
l’organico funzionale tornato in cantina)[7].
E’ necessario un ripensamento culturale sul significato
dell’autonomia, su come essa possa migliorare il lavoro didattico:
servono interventi sul piano legislativo, ma si può cominciare già
all’interno delle scuole, attraverso un’adeguata riorganizzazione
della comunità professionale (staff, dipartimenti, formazione,
ricerca, documentazione, legame con il territorio, ecc.).
La questione insegnante
Ritorniamo dunque a chi
la scuola la fa funzionare giorno per giorno, ai docenti e
naturalmente al dirigente scolastico ed al suo ruolo strategico[8],
prendendo atto che occorre essere più coraggiosi nel tratteggiare le
condizioni di esercizio della professionalità docente. Purtroppo i
Contratti di Lavoro e le leggine di assestamento finanziario si
susseguono senza nessun discorso innovativo per attirare i migliori
insegnanti verso l’insegnamento, stimolare motivazioni e
innovazioni, garantire formazione a fronte di nuovi scenari. A
partire dagli orari di lavoro: l’orario di cattedra non regge più,
perché rimanda ad una immagine di docenza tutta giocata
sull’insegnamento frontale, dimenticando funzioni fondamentali come
il tutoraggio, la relazione di aiuto, la gestione del recupero, la
cura dei laboratori. Si apre anche il grande tema della valutazione
del lavoro degli insegnanti, ma più che mettere in competizione i
docenti tra di loro (a questo porterebbe una pedissequa applicazione
del sistema premiale previsto dal D.lgs. 150/2009, c.d. Brunetta),
occorre creare un sistema di incentivi, in forma di crediti
riconoscibili ai fini della carriera o della assunzione di incarichi
di prestigio, che riconoscano le qualità degli insegnanti (il
curriculum, la formazione, la didattica in classe, i risultati degli
allievi, la reputazione), partendo da forme di autovalutazione
validata da “pari” o da “esperti” esterni.
Senza attendere le
grandi riforme di ordinamento, che forse non arriveranno mai più (e
che forse non sono poi così indispensabili), occorre ricostruire un
rapporto di fiducia della società civile verso la scuola, attraverso
la piena attivazione di tutte le energie interne alla scuola,
utilizzando tutti gli spazi che l’attuale normativa mette a
disposizione, e attivando una legislazione di “favore”, in grado di
consentire a tutti i soggetti di esprimersi al meglio.