SCUOLA

Tre idee per fare i concorsi
"salvando" precari e i nuovi Tfa

Marco Campione il Sussidiario 6.6.2012

CONCORSI, PRECARI E NUOVI TFA. Ringrazio Mariella Ferrante per aver dato conto della mia posizione in merito alle procedure di assunzione del personale docente. Colgo l’occasione per sistematizzare alcune linee di indirizzo e una proposta per l’immediato, sperando che il dibattito possa continuare e portare il ministro ad una soluzione che ci faccia fare passi avanti nella soluzione dei problemi.

Personalmente non ho mai avuto particolare simpatia per il concorso come metodo per la selezione del personale docente. Mi ritrovo infatti in quanto scritto in un intelligente libro di qualche anno fa (Malascuola di Claudio Cremaschi, Piemme Editore, 2009) che lo definisce “rozzo e inefficace”, non utile a selezionare i più meritevoli, dato che verifica competenze principalmente disciplinari che dovrebbero essere date per acquisite nel percorso universitario.

Detto questo, temo che per il breve periodo si debba comunque procedere con questo strumento. Possibilmente rendendolo meno rozzo e più efficace, capace quindi di verificare anche competenze diverse da quelle strettamente disciplinari; eventualmente anche sperimentando forme concorsuali diverse dal Grande Concorso Nazionale. Questo mio convincimento della ineluttabilità – in questa fase – di una procedura concorsuale nasce dal fatto che oggi l’esigenza principale che abbiamo di fronte è quella di contemperare due diritti: quello di chi è nelle graduatorie (Gae) da moltissimo tempo e quello di chi – più giovane - aspira ad insegnare. Oltre a queste esigenze dei singoli aspiranti docenti, il sistema ha il dovere di selezionare personale più fresco per far fronte ad alcune innovazioni (non solo tecnologiche) che senza una risposta adeguata e un atteggiamento proattivo da parte del corpo insegnante non potranno mai essere compiutamente implementate.

Per questi motivi, mi sono convinto che qualsiasi soluzione dovrebbe passare attraverso l’implementazione di tre principi.

1. Distinguere l’abilitazione dall’assunzione: abilitarsi è la certificazione dell’avvenuto percorso formativo specifico che, da sola, non dà alcun diritto al posto, né in una scuola né in una graduatoria. Analogamente il concorso non dovrà mai più essere abilitante, né dare alcun diritto se non quello di accedere alle cattedre disponibili al momento in cui viene indetto.

2. Mantenere il doppio canale per tutte le classi di concorso, anche quelle con pochi posti disponibili. Ci sono due posti? Uno andrà a personale dalle graduatorie, l’altro sarà assegnato per concorso. Si può eventualmente studiare un meccanismo che preveda di pescare dalle graduatorie una percentuale maggiore o minore di quella prevista dalle norme attuali (50% appunto) a seconda della loro maggiore o minore numerosità, ciò al fine di accelerare l’esaurimento delle graduatorie più numerose dando al contempo anche una possibilità ai più giovani. Nulla impedisce peraltro a chi è nelle Gae di partecipare al concorso.

Il problema del merito è senz’altro una delle questioni più importanti del sistema dell’istruzione; a maggior ragione lo è oggi, quando si sono raggiunti livelli di diffusione dell’istruzione mai visti prima, come esito del processo di scolarizzazione portato dagli anni 70. Ma non si può ridurre il merito a qualche premio che la scuola concede, bontà sua, agli studenti che si distinguono per i risultati ottenuti nel corso dell’anno. Fare questo non è introdurre il merito nella scuola, ma semplicemente valorizzare chi si impegna ed ha particolari capacità. Se si vuole introdurre il merito nella scuola e farlo seriamente, occorre prima chiedersi che cosa sia il merito e dunque che cosa si possa identificare come valore dentro una esperienza scolastica. Una domanda cui dare risposta, prima di procedere a qualsiasi forma di valorizzazione o di promozione, una domanda che di fatto oggi è pressochè inevasa dando così luogo a tanti, troppi equivoci.

In questa direzione val la pena sottolineare che in campo educativo il merito è relativo, non nel senso di relativo alla discrezionalità del valutatore, ma relativo al percorso che ogni studente fa: riguarda il punto da cui parte e il punto cui arriva, per cui per valutare il merito bisogna saper cogliere la realtà, identificare il cammino di crescita di ogni studente e riconoscere il valore aggiunto di ogni percorso individuale, là dove si gioca il rapporto tra insegnante e libertà dello studente. Fare questo lavoro è decisivo per iniziare a dire una parola significativa sul merito, uscendo dalla dialettica ideologica degli anni 70 e 80 per arrivare a descrivere la realtà educativa per ciò che è in se stessa, ossia il cammino verso la conoscenza che uno studente mette in atto.

Per questo, prima di parlare del merito degli studenti bisogna mettere a tema il merito degli insegnanti. È qui che il discorso attuale è monco. Si vuole premiare il supposto merito degli studenti senza capire che dipende da quello degli insegnanti che è il primo merito a dover essere valorizzato.

Al posto di istituire borse di studio o riconoscimenti vari, il ministro Profumo dovrebbe introdurre il merito nel corpo docenti e iniziare a valorizzare i docenti che si impegnano a livello educativo e ottengono risultati positivi, riuscendo a portare alla conoscenza studenti che si trovano in difficoltà obiettive, con punti di partenza estremamente deboli.

Quel che si deve conquistare nella scuola di oggi è che l’insegnante è un valore aggiunto, mentre viene ancora trattato come un robot che ha dei compiti da eseguire. E molti insegnanti sono così, dei burocrati dell’educazione, accanto a insegnanti che invece incidono dentro l’orizzonte culturale di uno studente e lo aprono al conoscere e al fare.

Bisogna quindi che il ministro Profumo cambi approccio. Perché non cominciare a chiedersi come identificare e premiare gli insegnanti che meritano? Fatto questo, si dovrebbe andare a premiare gli studenti, anche qui non con riconoscimenti in più, ma valorizzando lo studio quotidiano, rendendo l’ambiente scolastico un luogo affascinante, dove chi vuole può percorrere fino in fondo il cammino della conoscenza.

Ma c’è un’altra questione, indissolubilmente legata a questa. Se la prima condizione è intendersi sul merito, perché il merito è la valorizzazione del singolo studente, è costruire una scuola che non abbia come fine quello di portare tutti allo stesso livello, pur alto, pur altissimo, ma che faccia tutto per far crescere ogni studente per quello che è; ebbene, legato a questo primo presupposto ce n’è un secondo, ed è che per avere una scuola che valorizzi il merito, che alzi i livelli di qualità, c’è una sola cosa da fare: creare una scuola realmente libera, metterla in grado di essere autonoma e paritaria anche dal punto di vista didattico ed economico.

Oggi lo è solo sulla carta, per questo non c’è valorizzazione del merito, perchè non vi sono le condizioni perché una scuola o un insegnante possano promuovere le qualità e le capacità di cui dispongono. Senza libertà della scuola c’è solo un merito fittizio; con la libertà della scuola ognuno potrà esprimere il meglio delle sue potenzialità.

Per questo, al posto di spendere soldi per premiare studenti dell’anno − che di fatto sono solo l’esito di pure contingenze, sarebbe meglio che il governo trovasse le risorse per potenziare autonomia e parità, valorizzando così il lavoro dei docenti, vera base su cui può poggiare il merito di ogni studente.