Scuola e università Carlo Galli la Repubblica, 4.6.2012 ROMA - Il Pd boccia la riforma della scuola del ministro Profumo. Il governo vuole premiare studenti e gli istituti migliori. Il provvedimento potrebbe essere discusso in Consiglio dei ministri già mercoledì. Secca la replica: «Prima bisogna vedere quante risorse ci sono -afferma l'ex ministro Fioroni- e queste si usano per aiutare chi è in maggiore difficoltà». La riforma, accusa ancora il Pd, incentiva solo la competizione ma non migliora la scuola italiana. Critiche anche dall'Idv. Merito ed eccellenza sono, questa volta, le parole chiave, le linee guida dell'intervento del governo. Una risposta netta al dilemma storico fra quantità e qualità che – tramontata la scuola per pochi, che era anche, mediamente, una buona scuola – ha accompagnato la nascita e l'esistenza, approssimativamente semisecolare, della scolarità di massa e dell'Università aperta a tutti. Secondo il ministro, perseguire l'eccellenza, premiare i migliori studenti, le migliori scuole, i migliori Atenei, è in sé un'operazione giusta, ed avrà anche il vantaggio di motivare i meno bravi, per emulazione. Anziché selezionare negativamente i peggiori, li si sprona a emulare i migliori, riconosciuti e gratificati come tali. Intorno ai 'migliori' è costruito questo intervento: competizione, premi, segnalazioni alle imprese, sgravi fiscali per chi li assume; tutto vorrebbe concorrere a far nascere anche nel nostro Paese l'idea che la buona istruzione procura buon lavoro, l'idea cardine – in parte mitologica ma in parte effettuale – del sistema educativo statunitense. L'intento è di sconfiggere la demotivazione di studenti e docenti; di dare loro qualcosa per cui impegnarsi. Rispetto ai tempi di Silvio Berlusconi molto è cambiato: allora era evidente un livore antiscolastico e antiprofessorale – al di là delle affermazioni del ministro Gelmini, e delle ormai dimenticate Tre I (inglese, impresa, informatica) – che si esprimeva soprattutto nell'assetto punitivo di riforme aziendalistiche e centralistiche al contempo; com'era evidente anche che non il merito ma il demerito presiedeva le carriere politiche e televisive dei cortigiani e delle cortigiane. Ora, il governo e delle élites più serie e più responsabili, introduce un elemento di discontinuità, che va notato. La scuola e l'università non sono più prese in considerazione in una logica di 'ordine pubblico', ma di sviluppo. E tuttavia le perplessità sono molte. A cominciare dallo strumento del decreto – se vi si farà ricorso –, che pare francamente inadeguato per temi tanto complessi, bisognosi di essere discussi in parlamento; per continuare con la debolezza degli incentivi al merito – concorsi, olimpiadi, menzioni d'onore per gli studenti sono una ben misera motivazione –; e per arrivare quindi a uno dei punti centrali: il persistere del sotto finanziamento del sistema scolastico e universitario. Oggi – a parte una piccola somma già destinata all'autonomia scolastica e alla didattica, che non dovrebbe però essere stornata ad altri fini – non sono noti stanziamenti disponibili. Il merito deve forse essere premio a se stesso? Soprattutto, nelle misure prospettate molto è dato per scontato. La sostanza della recente riforma universitaria non viene mutata, tranne che il sistema di reclutamento, che torna al passato (bandi locali, membro interno e commissari esterni – uno dei quali straniero: indubbiamente accorreranno numerosi –, con i quali sarà ben facile stringere patti a buon rendere, come si è sempre fatto). E in generale la stessa idea di merito non è ben chiara: parola ambigua che copre di tutto – dall'impegno personale al talento naturale al privilegio sociale –, il merito dovrebbe in realtà emergere dopo che sono state alleviate, da precise e mirate politiche pubbliche, le principali cause di 'selezione naturale' che portano alla dispersione scolastica e all'abbassamento del livello degli studi e dell'insegnamento (inoltre, sul versante dei professori, la misura del merito implica l'affidarsi ulteriormente a macchinosi sistemi di valutazione, sui quali non si placano le polemiche). Il problema è che – se è giusto dare nuova centralità alla scuola e all'Università, e, concretamente, far partire i concorsi per l'insegnamento medio – oltre che un nesso fra più istruzione e più guadagno, il ministro dovrebbe fare emergere dai suoi provvedimenti anche il nesso fra più istruzione e cittadinanza più consapevole, ovvero il nesso che non può non esserci fra l'élite dei bravi e la società che nel suo complesso deve essere composta da persone più istruite (o da più persone istruite). Insomma, senza un impegno economico che mette i docenti in grado di ricercare e di insegnare, gli studenti (tutti) di imparare e i migliori di emergere, e senza un robusto ancoraggio di ogni intervento, anche meritocratico, ad una complessiva prospettiva civile e democratica, senza una nuova centralità della scuola e dell'Università nella società, il provvedimento risulta poco più che un messaggio generico e parziale, probabilmente quasi ininfluente nella pratica. E rinvia alla politica, e alla sua responsabilità, il compito di occuparsi organicamente dell'intera materia. Come, dopo tutto, è giusto che sia. |