L’incultura di Profumo

Angelo d’Orsi Il Fatto Quotidiano, 12.6.2012

L’ho visto. Alla tv. L’ho sentito parlare, anzi parlottare, esitante, incerto, vaghissimo. Forse giustamente imbarazzato. “Ci spieghi la sua proposta”, lo incalzava il conduttore. E lui incespicava, bofonchiava, guardava in aria come a cercare sostegno da parte di superiori autorità. Mi ha fatto tenerezza. Chi? Il ministro Profumo. Titolare del Miur, Ministero dell’Istruzione Università e Ricerca. Il dicastero devastato da una serie di predecessori negli ultimi vent’anni (eccezioni? Forse De Mauro, rimasto troppo poco), a partire da Luigi Berlinguer, fino all’inclita Mariastella Gelmini. Non è neppure colpa sua – dico, del ministro in carica – se il ministero gli scoppia tra le mani. Ma è certo sua la colpa di aver prima fatto il consulente della signora Gelmini – il punto terminale, in ogni senso, di una sequenza quasi tutta peggiorativa di donne e uomini che hanno seduto sulla poltrona che fu di Benedetto Croce e di Giovanni Gentile… – e ora di limitarsi ad applicare la di lei devastante “riforma”, introducendo, addirittura, qualche elemento di novità (se ne sentiva proprio il bisogno, signor Ministro?), che appaiono grotteschi, nella loro superfluità sostanziale, e gravi nel significato culturale e civile che esprimono.

La scuola italiana soffre di una spaventosa carenza di risorse economiche, che significa insufficienza di docenti, precariato a vita per decine di migliaia di altri, carenza di materiali didattici, blocco degli acquisti da parte delle biblioteche scolastiche, impossibilità di effettuare verifiche di stabilità degli edifici, con i rischi che scopriamo poi diventare tragedie, troppo tardi, quando una scuola crolla; e così via, in un infinito cahier de doléances che il ministro, un qualsivoglia ministro, ben conosce o dovrebbe conoscere.

In una decadenza generale gli insegnanti demotivati, sottopagati e maltrattati, oggetti di campagne diffamatorie, riescono a lavorare male, per forza di cose, e certo il sistema didattico complessivo e la società della comunicazione poco li aiuta. Sicché dalla scuola escono ragazzi impreparati ad affrontare tanto l’università (divenuta un enorme posteggio di forza di lavoro di riserva), quanto altre scelte. Consiglio al ministro un librino appena edito di Fabrizio Tonello, L’età dell’ignoranza (Bruno Mondadori) che in poche pagine radiografa impietosamente la situazione, mostrandoci un mondo dominato da un semianalfabetismo che di questo passo non si potrà mai più sanare: milioni di individui, non classificabili come “analfabeti” non sanno più leggere e faticano a scrivere. Se leggono, comprendono poco o pochissimo di quel che leggono. Le deficienze nelle scienze “esatte” se possibile sono ancora più gravi. La società della comunicazione veloce, visiva, smozzicata, abbreviata, sta piallando la testa delle persone. È una tendenza generale nelle affluent society, certo. Ma in Italia, siamo in realtà messi davvero molto male, particolarmente male. E perché non si interviene, per invertire la tendenza? La riposta è facile: l’ignoranza, di andata o di ritorno, fa bene al potere. Che ci manipola più facilmente.

Si tratta di un messaggio semplice, persino antiquato, che sta tornando di stringente attualità. La cultura, che comincia a scuola, ma certo là non si deve fermare, fa bene alla democrazia, insomma. E l’incultura, che si costruisce a partire da una scuola in difficoltà, da famiglie nel disagio, da una comunicazione mediatica diseducativa (e sgrammaticata, fondata sull’ignoranza più crassa dei suoi personaggi), l’incultura alla democrazia nuoce potentemente.

In tutto questo sfascio, dove eroicamente scolari e docenti cercano di resistere, che cosa ti propone il ministro? I tornei per designare l’alunno dell’anno (qualcuno ha replicato: e gli insegnanti? Ma è una richiesta che accetta una logica da respingere, invece). Premiare il merito, dice, come fanno tutti i media mainstream che accolgono condiscendenti anche le ribadite proposte sull’inglese obbligatorio nelle scuole di ogni ordine e grado (e nell’università: che il Politecnico di Milano obblighi dal prossimo anno tutti i docenti far lezione in inglese è uno scandalo gigantesco su cui occorrerà fare le barricate, tanto per dire).

Merito, Competizione, Mercato. Sono parole che si connettono strettamente fra di loro. Ma è davvero questo che occorre nella scuola italiana? Il merito è quello di chi ancora ci lavora e cerca di studiare, in una situazione ogni anno più grave; il merito è degli insegnanti che non rinunciano a fare al meglio il loro lavoro, malgrado tutto; degli studenti che non mollano, sedotti dal calcio e dalla tv. Se si vuole premiare il merito si consenta a docenti e discenti di lavorare. Si diano loro risorse, strutture sicure, servizi, aiuti. La crisi economica si supera anche, e innanzi tutto, “investendo sul futuro”, ci sentiamo ripetere ogni giorno. E da dove mai si vuole incominciare, se non dalla scuola?