Il valore degli esami di maturità dal blog di Giorgio Israel, 17.6.2012 Tornano gli esami di maturità e torna l’annosa e irrisolta questione: la disparità di giudizi che rende inconfrontabili i titoli ottenuti. I singoli insegnanti, le singole scuole danno degli alunni valutazioni diverse (di maggiore o minore manica larga), il che incide sul voto di maturità, il quale incide sulla scelta del percorso universitario, il quale è, a sua volta, caratterizzato da larghe disparità di valutazione, per cui i titoli con cui il giovane si presenta sul mercato del lavoro non sono equivalenti, e spesso non riflettono le sue effettive capacità. Due sono le vie per risolvere questo problema. La prima è di rinunciare al tentativo ambizioso e complesso di affrontarlo a monte e lasciare la soluzione al mercato, in funzione della credibilità dell’istituzione che ha conferito il titolo di studio, eventualmente certificata da una valutazione di sistema. Questa via ha senso soltanto se si abolisce il valore legale del titolo di studio. È quasi superfluo dire che questo è possibile, ma vanno sottolineate le difficoltà e le implicazioni di una simile scelta. In primo luogo – come è stato segnalato da chi conosce gli aspetti giuridici della materia – non esiste uno specifico articolo di legge da sopprimere per conseguire d’un tratto l’abolizione del valore legale: esso è talmente incastrato in ogni piega nella legislazione che, per sradicarlo, occorre intraprendere un’azione complessa, ramificata e delicata che, se non condotta in modo perfetto può sollevare problemi (e contenziosi) che rischiano di far impallidire la vicenda degli esodati. Inoltre, si dimentica che la normativa europea – non è curioso che si evochi lo slogan “l’Europa lo chiede” soltanto quando fa comodo? – stabilisce precisi requisiti per la circolazione del lavoro, per cui l’abolizione del valore legale dei titoli di studio aprirebbe problemi a non finire anche sul fronte comunitario. Per queste ragioni è sorprendente che un governo tecnico, anziché affrontare la questione sul piano a lui più congeniale, l’abbia “scaricata” sul terreno di un sondaggio “popolare” con il quale la prospettiva dell’abolizione è stata affondata in termini emotivi anziché razionali. Resta l’altra via: “forzare” le istituzioni educative a emettere giudizi basati su criteri quanto più possibile omogenei e confrontabili. Questo approccio conduce alla tematica di moda della cosiddetta valutazione “oggettiva”, ossia di una valutazione indipendente dalle idiosincrasie soggettive dell’insegnante, dei consigli di classe, delle politiche di questa o quella scuola o università. Purtroppo, le questioni complesse non possono essere risolte in modo semplice e tutte le tecniche di valutazione “oggettiva” manifestano inconvenienti spesso più gravi dei mali che vogliono curare. Il primo degli inconvenienti è conseguenza del modo più banale di risolvere il problema: sostituire alla soggettività del docente e dell’istituto un giudizio basato su parametri “impersonali”, di carattere quantitativo. Il guaio è che tutti i parametri finora escogitati hanno rivelato difetti clamorosi. Per esempio, giudicare un istituto dal numero di abbandoni scolastici o di “successi formativi” significa suggerire un percorso poco corretto con cui si soddisfa il parametro in barba alla realtà: promuovere tutti o comunque essere più corrivi. Sono soluzioni che ricadono nella situazione descritta dalla famosa legge di Campbell: «quanto più un indicatore sociale viene usato per prendere decisioni, tanto più sarà soggetto a pressioni corruttive e sarà atto a distorcere e corrompere i processi sociali che dovrebbe valutare»; o l’equivalente legge di Goodhart: «se un indicatore sociale o economico viene scelto come obbiettivo di una condotta sociale o economica, esso perderà il contenuto d’informazione che dovrebbe qualificare il suo ruolo». Inoltre, la pretesa che esistano procedure di valutazione esenti da fattori soggettivi è poco scientifica e priva di fondamento. Quale che sia il meccanismo usato esso sarà inevitabilmente frutto di operazioni umane (per lo più la proposizione di test) in cui intervengono dei soggetti con le loro idiosincrasie, le loro scelte e le loro opinioni opinabili. Lo si vede bene nelle discussioni in corso sulla valutazione della ricerca universitaria, per esempio quando si dibatte sull’attendibilità della classifica di qualità delle riviste scientifiche, e si mette così ironicamente in luce che il tribunale finale del valore di certi parametri “oggettivi” è il giudizio della comunità scientifica. È bene, al riguardo, tenersi alla larga dall’ossessione dell’oggettività che, pretendendo di risolvere in modo meccanicistico ciò che non vi si presta e imitando ingenuamente i metodi delle scienze “esatte”, di fronte agli insuccessi finisce col produrre esiti tragicomici. Ne è un esempio la proposta di Bill Gates, che si è gettato a corpo morto investendo più di trecento milioni di dollari per migliorare la qualità dell’insegnamento mediante criteri di valutazione “oggettiva” degli insegnanti: introdurre un braccialetto elettronico al polso degli studenti per misurare la loro “risposta galvanica epidermica” e con essa il grado di attenzione suscitato dall’insegnante, e in tal modo valutarlo. A tanto si può arrivare, persino nella patria delle libertà individuali. Infine, questa via “oggettivista” rischia di gettare via l’aspetto qualitativo più importante dell’istruzione: la figura dell’insegnante, ridotto a un passacarte di istruzioni che vengono dall’alto, soggetto a valutazioni di organi che si pretende essere “indipendenti” e deprivato anche della facoltà di valutare gli studenti. E rischia di dimenticare che un buon insegnamento si fonda soltanto sulla base di un profondo e valido rapporto tra “persone”. Tutto questo significa che non si può far nulla? Certamente no. Purché si parta dal principio che le questioni semplici non si risolvono con fallaci tagli gordiani. La soggettività è una componente ineliminabile – diciamo pure strutturale – nel sistema dell’istruzione e della sua funzione centrale, la valutazione. Occorre puntare, più che a un’irrealizzabile oggettività assoluta, a creare le condizioni per rompere le barriere e i meccanismi di isolamento che impediscono lo sviluppo di un sistema basato su procedimenti quanto più possibile omogenei ed equanimi. Il sistema per farlo – l’abbiamo già ricordato – non è nuovo, anche se deve essere ripensato e adattato alla natura del sistema attuale dell’istruzione: è quello delle ispezioni. Non si può più pensare a un meccanismo di ispezione ottocentesco condotto in modo centralistico da un corpo ministeriale: occorre qualcosa di più vasto e articolato che coinvolga l’intero corpo docente e altre componenti (ispettori ministeriali, insegnanti in pensione, le università) in un processo interattivo che generi una situazione di confronto trasparente. Esso può sgretolare le sacche di incompetenza e di comportamenti poco rigorosi mettendo a confronto realtà diverse e costringendole a interagire con le realtà migliori affinché queste riescano a far prevalere il loro modello. È un meccanismo che richiede impegno per essere messo in opera, e che non può produrre frutti prima di un tempo non breve. Prima ci si accingerà a metterlo in opera e meno lunghi saranno i tempi per ottenere un miglioramento effettivo e profondo, lasciando perdere le scorciatoie di un illusorio managerialismo che può soltanto ammazzare il malato più che la malattia. |