Il merito che divide, il merito che unisce

Stefano Semplici da l'Unità, 2.6.2012

IL GOVERNO SEMBRA DETERMINATO A VARARE, GIÀ NEI PROSSIMI GIORNI, un decreto legge sul «merito» nella scuola e nell’università. E le anticipazioni fin qui trapelate sono state sufficienti a riaccendere la polemica fra chi ritiene doveroso premiare i più bravi per non perdere la strada maestra della competitività e chi, dall’altra parte, si preoccupa di non sacrificare ulteriormente i diritti di tutti per incrementare il privilegio di pochi.

Un provvedimento che, al di la delle intenzioni, dovesse contribuire a irrigidire questa contrapposizione farebbe evidentemente male al Paese, che ha bisogno di tornare a costruire su ragioni e valori che uniscono. Per questo vale forse la pena di riflettere sul titolo che viene indicato per il testo al quale si sta lavorando a Palazzo Chigi: si parla di «valorizzazione della capacita e del merito» e questo esplicito riferimento all’articolo 34 della Costituzione offre lo spunto per due osservazioni, che spero possano trovare riscontro nelle scelte del governo.

La prima interroga chi pensa la giustizia sociale come antagonista del merito. Il dettato costituzionale e chiaro: e interesse e dovere della Repubblica garantire ai talenti la possibilità di crescere e raggiungere «i gradi più alti degli studi». La concretezza del principio di pari opportunità si misura non solo rispetto ai minimi (l’istruzione inferiore obbligatoria e gratuita), ma in modo altrettanto essenziale rispetto ai massimi: e la possibilità dell’eccellenza a dover essere aperta a tutti e dunque ogni iniziativa che premi lo sforzo dei giovani in questa direzione e semplicemente l’applicazione dell’articolo 34, prima ancora che l’esigenza di un Paese che non può prescindere da questa risorsa per tornare a crescere.

La seconda osservazione interroga invece quei paladini della meritocrazia che affidano ad una mano invisibile della quale si sono ormai perse perfino le impronte il compito di farsi carico di tutti gli altri. Il merito non coincide semplicemente con la «capacita» e la riduzione del primo a semplice misura dei risultati e delle prestazioni e una concezione angusta, figlia di una cultura che si e orientata in modo purtroppo sempre più marcato ad un individualismo senza responsabilità. Non e, in ogni caso, la concezione della nostra Costituzione, per la quale si può essere capaci e immeritevoli in due modi: certo per mancanza di impegno, ma anche per mancanza di quel senso del dovere e di partecipazione che, come si diceva una volta, rende i cittadini benemeriti, cioè costruttori di progresso, di bene comuni. Lo dice l’articolo 4 parlando del dovere del lavoro. Lo ribadisce l’articolo 42 parlando della funzione sociale della proprietà privata. Il provvedimento sulla capacita e sul merito che davvero serve al Paese dovrebbe dunque puntare a centrare un duplice obiettivo.

Da una parte garantire che il premio ai più bravi si accompagni a misure concrete che aiutino a far crescere tutti e in primo luogo coloro che per farlo devono risalire la corrente di condizioni di partenza più sfortunate. Dall’altra impedire che il riconoscimento del merito venga scambiato per un incoraggiamento ad essere bravi solo per se stessi.

Fra le tante indiscrezioni di questi giorni ce ne sono allora due che fanno ben sperare. Si dovrebbe parlare di una valutazione del sistema scolastico basata non su classifiche, ma sul miglioramento della qualità del servizio educativo: verrebbero premiati in questo modo gli istituti che, magari in condizioni di particolare disagio sociale ed economico, si dimostrano capaci di fare di più per i giovani che sono loro affidati. Si dovrebbe tornare a parlare, per l’università, del ruolo centrale della didattica e della funzione di trasmissione del sapere a tutti e non solo ai migliori. Cercando, allo stesso tempo, di far ripartire i concorsi e aprire nuovi spazi ai giovani e per i giovani. Il governo deve essere giudicato rispetto a queste sfide. Le guerre sulle parole non servono a nessuno.