SCUOLA

Non sarà imparando l'Inno che diventeremo più italiani

intervista a Roberto Chiarini il Sussidiario 18.6.2012

Goffredo Mameli ha compiuto il «miracolo» bipartisan mettendo d’accordo Pd e Pdl. La Commissione cultura della Camera ha infatti approvato un ddl che istituisce la «Giornata dell’unità nazionale, della Costituzione, dell’inno e della bandiera» il 17 marzo. Se il Senato darà il via libera, il negletto Canto degli Italiani, composto da Goffredo Mameli e musicato da Michele Novaro, sarà insegnato nelle scuole. Si badi bene, non cantato: gli equilibri della politica, e forse il buon senso, non hanno superato quella soglia. Il commento di Roberto Chiarini, docente di storia contemporanea nell’Università statale di Milano.

Professore, come ha accolto la notizia?

Con perplessità e scetticismo. Per due ragioni: una è pedagogica. I valori e lo spirito di appartenenza alla comunità non partono dall’inno per diventare sentimento, ma cominciano da quest’ultimo e casomai si corroborano col “rito”. E l’altra ragione è prettamente culturale. «Insegnare» l’inno nazionale cosa può voler dire? In che cosa si tradurrà? Il linguaggio di Mameli è lontanissimo dalla sensibilità di un giovane del terzo millennio. Come si farà per colmare la distanza?

Verrebbe da dire: spiegando il contesto nel quale è stato ideato.

Appunto. Ma questo non è «insegnare» l’inno, è fare una lezione di storia. Cioè contestualizzare, far capire, attraverso i fatti, qual è stato lo spirito e quali sono stati gli ideali di una grande stagione che, in maniera contrastata e drammatica, ha prodotto l’unità nazionale. E con essa, l’immissione dell’Italia nel circuito della modernità.

Il ddl istituisce la «Giornata dell’unità nazionale, della Costituzione, dell’inno e della bandiera» il 17 marzo. La scuola è chiamata per prima a favorire una riflessione sull’unità nazionale. Non è quello che lei sta auspicando?

Tutto dipende dal modo. Perché il rischio che corriamo, e gli esempi sono innumerevoli, è quello di far diventare queste «giornate» momenti celebrativi. Nelle scuole non si devono fare celebrazioni: «celebrare» ha molto del regime. Si devono invece aprire spazi critici, e per critici non intendo dire antiunitari, ma che restituiscano la complessità di quegli avvenimenti, fatti di luci e di ombre.

Secondo lei la nostra scuola non è in grado di svolgere al meglio questo compito?

Uno dei problemi è senz’altro dato dal fatto che molti dei nostri docenti che insegnano storia non sono storici di formazione, ma letterati o filosofi. La conseguenza è insegnano la storia come evoluzione di idee. Questo può risultare affascinante, ma è molto parziale e conduce al cristallizzarsi di interpetazioni sommarie, indiscusse, «eterne». Il nesso con l’approccio celebrativo che le dicevo è evidente. Sembra un buon servizio, invece è un cattivo servizio perché la realtà va raccontata tutta. La storia è sempre un «impasto» molto complicato.

A cosa si riferisce in particolare?

Nell’800 una generazione di giovani ha dedicato la vita, in senso non solo metaforico ma reale, ad un grande ideale. Questo non toglie che l’unità d’ Italia abbia comportato una serie di problemi che non si possono tacere. Che l’Italia sia arrivata tardi all’unità, che questa abbia significato una guerra civile, che sia stata l’esito dell’azione di una minoranza, che abbia creato grandi fratture − una su tutte, quella dei cattolici con lo Stato −, sono ombre che devono bilanciare le luci. L’Italia è entrata nella modernità facendo passi da gigante, ma in mezzo a tante e gravi contraddizioni. Se un giovane le scopre da solo, e non è la scuola a fargliele capire, penserà di essere stato truffato; penserà che le giornate della memoria gli hanno nascosto la parte «cattiva» della storia. Allora avranno buon gioco il leghista o il borbonico di ritorno a dire che si stava meglio quando si stava peggio, o che il sud è stato rovinato dal nord, e simili.

Ma secondo lei c’è un progresso nella classe docente o è tutto uguale a prima?

Non posso parlare della nostra scuola superiore perché non ne ho esperienza diretta. Devo però costatare che la storia è ancora una delle materie più intossicate dalla partigianeria. Sono stato chiamato in radio a parlare del 25 aprile, in una scuola gli studenti di sinistra avevano invitato un partigiano a fare una lezione di storia. Francamente: può un partigiano fare una «lezione» di storia? Direi che la sua può essere una utilissima, coinvolgente testimonianza, ma non una lezione. Perché invece non chiamare uno storico? C’è stata naturalmente la reazione di quelli di estrema destra. Non li giustifico, mi limito a prendere atto che una cosa utile è degenerata in rissa.

L’Svp ha votato a favore, ma è stato accolto un emendamento del deputato Karl Zeller in cui si precisa che la legge si applica a tutte le scuole ma nel rispetto delle minoranze tutelate dall’articolo 6 della Costituzione.

Vede? È la conferma di quanto vado dicendo. Stiamo parlando di un tema centrale per capire l’Italia di oggi e c’è chi vuole la discrezionalità sulla materia. Ovvero: poiché sono altoatesino e dunque non mi riconosco nella cultura italiana, allora lasciatemi stare. E invece chi è di minoranza tedesca, al pari di chi è di Campobasso − o di Varese − deve affrontare questo problema, perché tutti viviamo in questa democrazia.

Cioè, in altri termini…

Perché uno non è toccato dall’inno? Perché non si riconosce − appunto − nella celebrazione. È l’ennesima conferma dell’incapacità culturale di pensare storicamente.

Anche a proposito del «sacro» 25 aprile?

Ma certo. Un istriano non può accettare il 25 aprile come giorno della liberazione, perché da quel giorno è cominciata la sua tragedia: un popolo è stato massacrato e cacciato nelle foibe. Se invece di festeggiare la vittoria del Bene, dico che il 25 aprile è la pagina drammatica e complessa di uscita da una guerra voluta dalle dittature, allora ricomprendo anche il dramma di chi quei momenti ha vissuto in modo − mi si passi il termine − diverso.

Cosa pensa delle celebrazioni dei 150 anni?

Sono diventate, di fatto, una difesa della bandiera contro i leghisti i quali cercavano di argomentare che l’unità è stata un cattivo affare. Un tema storico è diventato l’ennesima risorsa polemica.

In Commissione la Lega non ha votato il ddl.

Il vezzo della politica di decidere dall’alto non è bello. Ora una maestra entrerà in classe e dovrà dire: facciamo l’inno. Bene; l’importante è che faccia anche capire, con equilibrio, che l’unità d’Italia è un processo andato in giudicato.

La missione della scuola è dunque doppiamente importante per coltivare quel sentimento di cui parlava all’inizio.

Sì. La scuola deve educare a riflettere; solo così si interiorizzano i valori. Nel momento in cui i giovani si ritroveranno a dire: costui è − o − non è «dei nostri», la missione educativa sarà fallita. Purtroppo, temo che non sarà imparando l’inno che diventeremo più italiani.