La dimensione costituzionale della scuola

di Marina Boscaino da MicroMega, 13.6.2012

Una delle ultime zampate del governo Berlusconi contro la scuola – la legge 111/11, Disposizioni urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e relativa al dimensionamento scolastico – ha trovato (almeno formalmente) un grosso ostacolo sul proprio cammino. Quella norma stabilisce che “Per garantire un processo di continuità didattica nell’ambito dello stesso ciclo di istruzione, a decorrere dall’anno scolastico 2011-2012 la scuola dell’infanzia, la scuola primaria e la scuola secondaria di primo grado sono aggregate in istituti comprensivi, con la conseguente soppressione delle istituzioni scolastiche autonome costituite separatamente da direzioni didattiche e scuole secondarie di I grado; gli istituti comprensivi per acquisire l’autonomia devono essere costituiti con almeno 1.000 alunni, ridotti a 500 per le istituzioni site nelle piccole isole, nei comuni montani, nelle aree geografiche caratterizzate da specificità linguistiche.” Il risultato degli accorpamenti ha determinato la diminuzione di circa il 10% delle scuole autonome: 943 istituti, per la precisione.

La Corte Costituzionale, in seguito al ricorso presentato da diverse Regioni – Toscana, Emilia-Romagna, Liguria, Umbria, Sicilia, Puglia e Basilicata – con la sentenza 147 dello scorso 7 giugno, ha dichiarato “l’illegittimità costituzionale dell’articolo 19, comma 4, della legge 111/11, per violazione dell’articolo 117, terzo comma della Costituzione” (competenze legislative di Stato e Regioni), “essendo una norma di dettaglio dettata in un ambito di competenza concorrente”. Il provvedimento del 2011, in pratica, ha avocato allo Stato poteri esclusivi delle Regioni su questo genere di competenze. La sentenza della Consulta stabilisce che le Regioni avrebbero dovuto (invece di provvedere, accorpando 1.082 circoli didattici con 592 scuole secondarie di I grado, per formare 731 istituti comprensivi), ispirarsi all’art. 2, comma 2 del Dpr 233/98: “Ai fini indicati al comma 1, per acquisire o mantenere la personalità giuridica gli istituti di istruzione devono avere, di norma, una popolazione, consolidata e prevedibilmente stabile almeno per un quinquennio, compresa tra 500 e 900 alunni; tali indici sono assunti come termini di riferimento per assicurare l’ottimale impiego delle risorse professionali e strumentali.“.

Come spesso accade di questi tempi, ci troviamo davanti ad una bomba che non solo è stata innescata, ma ha anche conflagrato: gli istituti sono stati accorpati, i posti di Dirigente Scolastico e di DSGA sono diminuiti, le cattedre sono state tagliate, con conseguente perdita di posto per molti docenti e relativi trasferimenti; le iscrizioni degli alunni sono avvenute; i genitori hanno cominciato ad avere a che fare con situazioni paradossali, con dirigenti che gestiscono più scuole o plessi lontani tra loro, direttori dei servizi generali e amministrativi costretti su più istituti, con le conseguente diversa accessibilità delle segreterie . Ciascuno di questi attori – dai dirigenti alle famiglie – potrebbe ricorrere contro le Regioni che, invece di esercitare le proprie prerogative, hanno provveduto ad eseguire quanto determinato da una legge che interveniva su materia di loro competenza. Non è la prima volta che ci si trova in una simile situazione. Uno degli esempi più eclatanti dell’incertezza del diritto in cui ci dibattiamo è rappresentato dal fatto che, nonostante le sentenze di Tar e Consiglio di Stato, che nel 2011 dichiararono illegittime le circolari sugli organici che configuravano i tagli conseguenti alla “riforma” Gelmini, gli organici non sono mai stati rivisti; e che persino i precari colpiti da quei tagli non hanno ritenuto di dover ricorrere per far valere il proprio diritto. Mancanza di conoscenza, inerzia, desolata rassegnazione: qualunque sia il motivo, è ben chiaro che né lo Stato, né gran parte dell’informazione si sono curati di sottolineare l’anomala situazione, per preservare l’esecuzione perfetta – benché illegittima – del piano di “semplificazione e razionalizzazione” determinato in quel caso dalla legge 133/08 (che fruttò e sta fruttando il taglio di 140mila posti di lavoro circa e 8 mld di risparmio sulla scuola).

La “scusa” per coprire la propria responsabilità e mantenere operative condizioni dichiarate illegittime – questa volta, addirittura, dalla Consulta – è sempre la stessa. Ecco cosa sostiene Gabriella Sentinelli, assessore all’Istruzione della Regione Lazio, amministrazione che – nonostante il duro ostruzionismo dell’opposizione e la mobilitazione di famiglie, studenti, scuole, genitori e associazioni – ha approvato qualche mese fa il proprio piano di dimensionamento secondo i criteri nazionali, che ha implicato l’accorpamento di 109 istituti scolastici: «Ora è troppo tardi per rivedere il piano: se lo facessimo, le scuole rischierebbero di non aprire a settembre. Stiamo comunque aspettando indicazioni da parte del ministero dell’Istruzione e nel frattempo stiamo studiando il da farsi». Di contro, Fabio Nobile (FdS): «L’assessore Sentinelli, che ha deciso di non raccogliere il nostro invito a impugnare di fronte alla Consulta la legge 111/2011, come hanno fatto le 7 Regioni che ora hanno dimostrato essere nel giusto, è l’unica responsabile di questo pasticcio. Dovrebbe trarne le conseguenze e dimettersi».

È curioso, però, che finora non si sono mosse e non hanno fatto nessuna dichiarazione in merito alla volontà di muoversi per rendere concreta la pronuncia della Consulta nemmeno le Regioni che hanno promosso il ricorso: nessuno sembra interessato a riappropriarsi delle proprie prerogative e rivedere il piano di dimensionamento. Il rischio è che l’intervento su una procedura così articolata e già innescata scoraggi gli attori coinvolti in questa complicata situazione. Di conseguenza (rischio ancora maggiore, perché configurerebbe l’ennesimo arretramento in termini di affermazione del primato della legge) potrebbe accadere che si decida di soprassedere, lasciando che condizioni dalle conseguenze negative in termini di accesso e diritto allo studio e all’apprendimento, nonché di diritto al lavoro, vengano a concretizzarsi, nonostante una pronuncia di incostituzionalità.

Pretendere il rispetto della sentenza della Corte avrebbe differenti ed importanti valenze: mantenere ferma la barra dell’inviolabilità della legge; ma anche riaffermare che le esigenze dei cittadini, in un Paese prono alla logica della mercificazione delle istanze, devono riconquistare una centralità che ormai sembra dimenticata. La concretizzazione che le previsioni normative in merito al dimensionamento scolastico determinano in termini di taglio di posti di lavoro e di svantaggio per gli utenti non devono poi far perdere di vista un ulteriore elemento: dobbiamo decidere se la qualità del servizio scolastico sia un obiettivo compatibile con la ferma volontà di rendere la scuola dello Stato una delle fonti di risparmio cui si attinge con maggiore frequenza e accanimento. Tutto sembra suggerire che non lo sia. Conosco persone stimabili e competenti che sostengono che gestire una scuola con molti alunni non comporti alcun tipo di problema. E che la “razionalizzazione” delle risorse sia una priorità assoluta. Certamente le capacità gestionali di un dirigente scolastico possono essere sollecitate dalle dimensioni dell’istituto e dal numero degli studenti. Ma io credo che – se svincoliamo per un momento il concetto di scuola dalla dimensione manageriale nella quale sempre più seriamente rischia di finire – così come i tempi distesi giovano agli studenti, anche il preside possa dare il meglio di sé esercitando la propria funzione con i tempi, i modi, i luoghi, la conoscenza diretta che solo un istituto dalle dimensioni ragionevoli può garantire. La scuola non è e non deve diventare un’azienda: la sua specificità deve essere fatta salva, anche attraverso una gestibilità “a misura d’uomo”.