La spesa delle scuole di Gian Carlo Sacchi Educazione & Scuola 14.1.2012 In un sistema centralistico in cui le scuole erano considerate terminali territoriali dello Stato le spese per l’erogazione del servizio venivano decise in coerenza con un ordinamento che costituiva la totalità degli impegni che le stesse dovevano portare a termine nelle pur diverse realtà locali, salvo pochi interventi di sostegno alle strutture assicurati dagli enti territoriali. La situazione attuale vede al centro le esigenze formative delle persone e quelle delle comunità, l’autonomia della scuola nell’elaborazione dell’offerta, il che comporta non solo la gestione decentrata delle risorse, ma un allargamento delle stesse e quindi la necessità che sulla base di “livelli essenziali delle prestazioni” si definiscano i finanziamenti erogati dallo Stato e altri ne vengano reperiti a livello locale, sia pubblici che privati. Il sistema nazionale deve infatti garantire i diritti di cittadinanza e la qualità dei servizi pur nelle diverse realtà e più articolate soluzioni organizzative. Si tratta dunque da un lato da parte dello Stato di assicurare sostegni economici adeguati per quanto riguarda l’ambito nazionale (negoziato con le Regioni e le Autonomie Locali) e la relativa crescita, con azioni perequative per le realtà più disagiate, e, dall’altro, di individuare sui territori modalità integrative che tengano conto dei rapporti tra domanda e offerta, in relazione ai rispettivi livelli di sviluppo. A seguito dei ben noti provvedimenti governativi di contenimento della spesa al sistema scolastico sono stati decurtati personale e finanziamenti, così come agli Enti Locali ai quali è stato imposto un “patto di stabilità” che blocca anche le disponibilità esistenti. Si ha dunque la sensazione che il proclamato federalismo fiscale di fatto costringerà i predetti enti ad un’autoperequazione per mantenere gli standard di servizi erogati, ricercando nuove entrate. Tutto questo non ha solo risvolti finanziari, ma anche politici, relativi ai poteri di regioni, enti territoriali e autonomie scolastiche, a cominciare dall’applicazione del nuovo titolo quinto della Costituzione. Se però l’istruzione è un settore che rientra, come dice la legge, tra le “funzioni fondamentali” da finanziare completamente, allora occorre una concertazione per definire sul tavolo del fisco e dei trasferimenti economici come comporre la relativa spesa. Ma le scuole in realtà di che mezzi finanziari dispongono e da dove provengono ? Si riportano alcuni risultati emersi da una sommaria indagine effettuata nel corrente anno scolastico, che tiene conto del tipo di scuola e della dislocazione. Si sa che lo Stato fornisce la dote principale, i docenti e più in generale il personale, ma non vi è dubbio che la qualità della loro prestazione dipenda molto dalle condizioni in cui si trovano ad operare. In un istituto comprensivo di collina ci sono circa 500 alunni, possono essere distribuiti in più di 10 sedi tra i diversi gradi di scuola. Sono piuttosto diffuse le pluriclassi, sia nella primaria che nella secondaria di primo grado. C’è un’offerta di tempo scuola dilatato ovunque e i risultati sono buoni: pochi respinti a fine ciclo e non c’è dispersione. Manca un utilizzo a fini didattici dei risultati delle prove INVALSI, così come si fa riferimento alle indicazioni ministeriali per i curricoli senza introdurre particolari flessibilità o standard territoriali. Il bilancio è di poco più di 200.000 euro ed ha registrato una diminuzione dei contributi statali ed una sostanziale stabilità di quelli degli enti locali e delle famiglie. In un istituto comprensivo di pianura, alle porte di un grosso centro urbano, la popolazione oltrepassa i 1500 alunni, su circa 10 plessi, senza pluriclassi, con un tempo scuola variabile. Il conto ha chiuso con poco più di 500000 euro evidenziando un calo dei finanziamenti statali e in genere degli enti locali. C’è stato un aumento solamente dei contributi delle famiglie. Irrilevanti sono gli insuccessi durante e al termine del ciclo, ma non si registrano abbandoni; manca anche qui il confronto con i dati INVALSI e non ci sono particolari interventi sul curricolo oltre quanto indicato a livello nazionale. Mentre i comprensivi dovevano dare maggiore efficienza alla struttura scolastica soprattutto dal punto di vista amministrativo, oggi possono costituire in qualunque contesto una più apprezzabile strategia di riorganizzazione della didattica e del sostegno all’apprendimento, nelle città tuttavia sono ancora presenti unità scolastiche orizzontali che operano all’interno di un unico segmento formativo. Queste a livello primario hanno almeno due sedi, ma vanno anche oltre le quattro soprattutto nelle medie che derivano da progressive fusioni di piccole entità che hanno progressivamente perso l’autonomia. Ma anche nella primaria la logica della divisione per grado fa sì che non vi siano rapporti efficaci nemmeno con la/e scuola/e dell’infanzia. Una direzione didattica che vuole mantenere la personalità giuridica in modo stabile deve avere più di 800 alunni, si ritrova circa 35 classi e una novantina di docenti. L’organizzazione estremamente semplificata, in quanto tende a tornare al maestro unico, ha un basso numero di personale non docente ed un bilancio che si aggira sui 370000 euro. Stessa situazione nelle scuole medie con qualche insegnante in più per effetto dei curricoli disciplinari, ma con bilanci più magri. Anche queste ultime devono tendere alla semplificazione, diminuendo le ore (da 33 o 36 a 30, per il tempo prolungato, in calo, o le sperimentazioni azzerate) o togliendo l’abbinamento con altre attività, vedi ad esempio il CTP che dovrebbe essere unificato a livello provinciale. Per le così dette scuole di base i finanziamenti statali per il funzionamento sono in netto calo e vengono percepiti in modo discontinuo; in calo anche gli interventi degli enti locali. Non ci sono altre entrate, e quindi resta di incidere sulle famiglie, continuando a chiedere o aumentando i contributi volontari. Rarissime sono le entrate derivanti da progetti europei. La percentuale di successo formativo è comunque elevatissima, soprattutto nella primaria, anche se le scuole non introducono altri standard limitandosi alle “indicazioni nazionali”. La percentuale di abbandoni è pressoché nulla, ed altrettanto basse nella scuola media sono le ripetenze e le bocciature all’esame di licenza. Interessanti in alcune realtà di scuole elementari, l’introduzione di obiettivi di apprendimento definiti per la lingua inglese, musica e attività sportiva, con la collaborazione di associazioni esterne. Anche qui manca completamente un confronto sul miglioramento dei livelli interni delle prestazioni, utilizzando i dati INVALSI. Servizi di mensa, assistenza prescolastica (lavoratori socialmente utili), doposcuola o centri educativi (cooperative sociali) tendono ad essere portati direttamente dall’esterno. Passando alle scuole superiori è il liceo a fornire un quadro di maggiore stabilità e minore complessità; siamo oltre i 1000 alunni, con classi definite normali, distribuite al massimo in due sedi, la seconda utilizzata per far fronte all’aumento di iscrizioni considerate un effetto del prestigio dell’istituto stesso nella società locale. Si è avuto un movimento finanziario di oltre 1.600.000 euro sostenuto principalmente dalle famiglie ed altri sponsor. I finanziamenti pubblici, statali e provinciali, sono in calo. La percentuale di insuccessi e di dispersione sono basse, ed all’esame di stato sono tutti promossi. L’istituto tecnico (industriale) supera anch’esso i 1000 studenti con un sistema organizzativo più complesso, non tanto per la fisiologia degli indirizzi, laboratori, ecc., ma per la difficoltà di contemperare i parametri di spesa per gli organici, il che apre il fronte delle classi così dette articolate (gruppi grandi per le materie comuni e piccoli per quelle di indirizzo). La percentuale dei bocciati durante il percorso supera il 20% e la dispersione il 10%. All’esame di stato passa la quasi totalità. Anche qui il costo complessivo supera il milione di euro, ma tutte le fonti di finanziamento hanno il segno -, tranne quelli provenienti da ditte ed altre iniziative messe in atto direttamente dalla scuola. Da registrare nessun intervento formalizzato sul curricolo, nonostante la flessibilità prevista dall’ordinamento. Il professionale (alberghiero) sta al di sotto dei mille alunni, con un costo inferire al milione di euro. Le entrate sono in calo per tutte le fonti istituzionali, tranne che nei contributi delle famiglie che restano costanti. Le bocciature vanno oltre il 20% nelle classi intermedie e si aggirano attorno al 10% negli esami di qualifica triennale ed al termine del quinquennio. Gli abbandoni poco più del 5%. Nonostante l’alto potenziale di flessibilità previsto anche per questi istituti, il così detto curricolo locale o dell’autonomia non è decollato. L’unica realtà in controtendenza risulta essere l’istruzione artistica, che solo di recente vede uniti i licei con gli istituti d’arte. Detta unione ha dato origine per la prima volta ad istituzioni con oltre 1000 alunni ed una notevole complessità interna, per quanto riguarda le suddette classi articolate. Il conto consuntivo fa registrare oltre un milione di euro ed interventi dello stato e degli enti locali in crescita; in calo quelli delle famiglie. Sarà l’effetto unione messo in atto dalla riforma ? I bocciati superano il 10%, basso il tasso di abbandoni; agli esami di stato tutti promossi. I dati sono riferiti perlopiù alla spesa corrente ed anche l’intervento di eventuali sponsor va in questa direzione, mentre restano del tutto inevase le richieste di investimenti per attrezzature. Si sa che soprattutto gli istituti tecnici e professionali hanno potuto raggiungere livelli di eccellenza grazie alla presenza di laboratori e infrastrutture di supporto alla didattica. Anche nei licei e negli altri gradi di scuola è stato possibile in questi ultimi anni aumentare la dimensione laboratoriale e multimediale, ma le novità si limitano alle LIM ed a qualche sparuta classe “ipertecnologica”. Ma, si sa, proprio in questo settore nonché in quello delle tecnologie professionalizzanti le strumentazioni invecchiano e nonostante si voglia incentivare una scuola operativa e attiva nulla si intravvede per il rinnovamento di impianti e apparecchiature, che non possono certo essere sostituiti dai pur opportuni stage aziendali. Da questo seppur fugace colpo di sonda emerge che alle politiche economiche si devono accompagnare quelle scolastiche. Se le nostre scuole traggono sempre più sostegno dal territorio, allora è da decidere quale dovrà essere l’impegno diretto dello Stato e come si interverrà sul territorio stesso a cominciare dagli strumenti di programmazione e dei criteri per la gestione del personale. Si dovrà operare un consolidamento del primo ciclo, nell’ottica degli istituti comprensivi, collegato efficacemente alle strutture per la prima infanzia, da far rientrare a loro volta tra gli impegni statali (vedi legge sul federalismo fiscale), in modo da ottimizzare tempi, processi didattici e competenze dei docenti. Bisognerà elaborare un progetto specifico per la montagna, sia per quanto riguarda l’efficacia dei modelli organizzativi rispetto agli standard di apprendimento, sia per i necessari sostegni al diritto ed alla qualità dell’offerta formativa. Nel passaggio tra primo e secondo ciclo, tra istruzione e formazione professionale, occorre accompagnare la transizione verso il lavoro con attività di orientamento e di contrasto alla dispersione. Va riconsiderato in termini di equità il rapporto con i privati, a cominciare dalla gestione dei contributi delle famiglie e per far fronte alle tariffe dei servizi connessi: mense, trasporti, corredi, libri, ecc. Si dovrà valorizzare infine il potenziale delle scuole nella prospettiva dell’educazione degli adulti, sia per l’abbassamento dell’età media dei frequentanti gli attuali percorsi, sia per la presenza nei piccoli centri, sia per quanto riguarda lo sviluppo nell’istruzione terziaria (ITS), sia, più in generale, per l’attenzione che la scuola stessa deve porre alla formazione lungo tutto l’arco della vita. |