scuola

I nativi digitali?
Dietro l’angolo, sono "mostri"

intervista a Michele Di Francesco  il Sussidiario 13.1.2012

Un tablet per tutti? Sì, no, dipende. «I nostri ragazzi sono nativi digitali e la loro scuola deve diventare moderna e visionaria». Lo ha detto a Repubblica il ministro Profumo, per la gioia di molti, e la disperazione di altri. Le nuove tecnologie, si sa, dividono la scuola. A cominciare dai nativi digitali: farli precedere dall’espressione «cosiddetti» per i più prudenti è un obbligo, per gli altri no perché i bebè smanettoni sancirebbero un passaggio irreversibile, l’ultima evoluzione della specie. Con Michele Di Francesco, docente di filosofia delle scienze cognitive nell’Università Vita Salute del san Raffaele, abbiamo cercato per l’ennesima volta di superare la spaccatura tra «progressisti» e «conservatori», tra disciplinaristi incalliti e fautori del «nuovo» costi quel che costi.

Michele Di Francesco, basta evocare un tablet per essere osannati o creare scompiglio. Perché secondo lei?

Nella cultura italiana c’è una antica diffidenza verso la tecnologia. Può dipendere da motivazioni culturali, come può essere una reazione psicologica alla velocità con cui dobbiamo tutti adattarci alle nuove tecnologie, che cambiano con una velocità sconosciuta in passato. Fino a ieri una persona già formata poteva doversi aggiornare su nuovi contenuti, ma difficilmente aveva necessità di impratichirsi con nuovi strumenti di apprendimento. Oggi non è più così.

Ma esistono i «nativi digitali»?

È ovvio che in questa situazione i giovanissimi abbiano una marcia in più. Ma credo che i «nativi digitali», molto più che una realtà, siano la traduzione di una inferiorità psicologica degli adulti.

E le «motivazioni culturali» che ha evocato?

Vanno ricondotte alla diffidenza verso la tecnica e la tecnologia tipiche di certa cultura umanistica. Ma è una diffidenza mal riposta, perché l’umanesimo e le scienze umane possono avvalersi moltissimo delle nuove tecnologie. Non metterei in dubbio che scuola e università debbano essere più adeguate alla realtà in termini di strutture e metodi. Oggi l’università è un docente che sale fisicamente in cattedra e parla ad una platea che fisicamente lo ascolta. Questo accade nel 2012, ma era vero anche nel 1890.

Quali conseguenze avrebbe invece la cosiddetta «educazione digitale» sulla trasmissione della conoscenza?

Ogni forma di trasmissione della conoscenza richiede una riorganizzazione cognitiva di chi apprende, ma anche di chi insegna. Pensiamo alla simultaneità del multitasking, anche durante l’apprendimento: significa distribuire la capacità, l’attenzione, la memoria di lavoro in tanti compiti differenti. È un modo diverso di apprendere.

Semplicemente diverso, o superiore rispetto al passato?

Direi solo diverso. Invece il livello di concentrazione sul singolo tema rischia di essere inferiore. Si tratta, come spesso quando si presenta qualcosa di nuovo, di una sfida: le nuove tecnologie, se usate bene, potrebbero permettere lo sviluppo di forme diverse di pensiero «laterale», o di capacità argomentative inedite – cosa che di per sé non è un fattore necessariamente negativo. L’attenzione da avere è che la velocità si sposa troppo spesso con la superficialità. Il nuovo non deve escludere il vecchio, come per il cibo: sarebbe un errore se, rapiti dal nuovo, abbandonassimo forme di pensiero «slow», lente, collaudate e salutari.

Ma dobbiamo temere o no che i giovani, fin da piccoli, imparino sul tablet?

Dipende: questo come viene proposto? Sono io che glielo domando. Il «come» – e con esso il «che cosa» – è rilevante.

Provocatoriamente, potrei dirle che per molti non importa. Il tablet c’è? Usiamolo. Anche per arginare la perdita di interesse degli studenti verso i contenuti...

Ci vuole cautela. Premesso che una scuola più informatizzata sarebbe solo da auspicare, occorre dire che il pc è lo strumento, non il metodo: su questo sono d’accordo con la critica che traspare dalla sua domanda. Di sicuro non si possono abbandonare i giovani ad un uso massiccio dei nuovi mezzi, lasciandoli in balia di se stessi. Devono essere accompagnati. Perché vede, si sta passando dalla scrittura su carta a quella sul pc, ma l’organizzazione del nostro pensiero, nella stragrande maggioranza dei casi, è rimasta lineare.

Le nuove generazioni rischiano di lasciarsi condizionare troppo dal pc?

Se questo vuol dire sfruttare al meglio quello che lo strumento ci dà, bene; se invece vuol dire essere dipendenti da esso, la cosa non va più bene. Non è la somma di informazioni messa a disposizione dalle rete che fa nascere il senso critico, ma l’educazione. Una vera educazione non può essere virtuale, ma fatta di incontri. Un incontro è altro da ciò che avviene sullo schermo di un tablet. Mi permetto di aggiungere: anche da ciò che compare sulla superficie di un quaderno.

La nostra mente contempla la nozione di infinito?

Contempla la nozione di infinito potenziale: la mente umana va sempre oltre. Grazie alla sua capacità di sviluppare metafore e analogie, può costruire metafore nelle quali si «nasconde» il concetto di infinito, ma per dare sviluppo reale alla nozione di infinito occorre uscire dalla nostra mente singolare, aprirsi ai risultati della cultura. Interagendo per esempio con quel meraviglioso prodotto culturale che è la matematica, frutto di migliaia di anni di lavoro, possiamo «appropriarci» dell’infinito.

Esiste il rischio che uno strumento dotato di una sintassi logica contamini il nostro modo di intendere la semantica della nozione di infinito?

La storia ci insegna che gli esseri umani, per natura, passano sempre dalla sintassi alla semantica. È vero che noi per la maggior parte siamo legati all’uso di strumenti di pensiero meccanizzabili – quelli che lei ha definito col termine «sintassi». Però sono convinto che la creatività, alla fine, si imponga sempre. La cosa su cui vigilare è che interagendo con le macchine, non siamo noi a diventare più macchine, ma che siano le macchine a diventare più «umane». Pensiamo al fenomeno Apple: la genialità di Jobs è stata quella di portare portato l’estetica nella fruizione di oggetti informatici. È la prova che il solo meccanismo non ci basta.

La tecnologia lascia soli?

Rischia di chiudere nella solitudine il ragazzo timido, con problemi relazionali, che si sente a disagio con gli altri e ha l’illusione di poter contattare tante persone solo perché chatta con degli sconosciuti trovati in rete. Però il dissidente di un paese totalitario che riesce a mettersi in contatto con persone che lo sostengono, non è più solo.

Il global network mette a disposizione una gran quantità di informazioni in tempi rapidissimi. Il rapporto tra maestro e allievo potrebbe «svuotarsi»?

Il rischio è reale. Oggi io posso collegarmi in rete e assistere alle lezioni dei migliori professori di Harvard. Ma se riducessimo tutta la conoscenza a questo, ad una specie di grande campus elettronico, faremmo qualcosa di profondamente sbagliato. Essere docenti, essere allievi, implica una dimensione personale, viva, simpatetica, emotiva: se togliamo questa relazione, togliamo tutto.