Giovani insegnanti = Giovani disoccupati?

DiEsse da Scuola e Web, 20.1.2012

La situazione del lavoro in Italia è drammatica e per i giovani ancora di più, se si pensa che il tasso di disoccupazione giovanile (15-24 anni) ha superato il 30%. Nella scuola, poi, i giovani insegnanti sono una specie rara, non se ne vedono tanti in cattedra e non se ne prevedono molti in ingresso, sempre che le cose non cambino radicalmente. Nel volume curato dal Miur, La scuola in cifre 2009-2010, si leggono alcuni dati suscettibili di interessanti considerazioni: nel 2007/2008 più della metà degli insegnanti italiani in servizio nella scuola secondaria erano ultra 50enni (56,2%); sull’invecchiamento del corpo insegnante hanno influito, prevalentemente, le politiche di controllo della spesa pubblica previdenziale, tese a ridurre le cessazioni del rapporto di lavoro per pensionamento anticipato. Nelle graduatorie ad esaurimento staziona un personale che ha mediamente 38 anni di età, perciò le nuove immissioni in ruolo contribuiscono solo parzialmente ad uno svecchiamento del corpo docente.

A due anni da questo rilevamento la situazione non è migliorata, anzi si è aggravata. La scuola ha a lungo ricoperto il ruolo di grande ammortizzatore sociale (il 5,2% degli occupati in Italia lavora nella scuola statale), ma ora questo non è più possibile. È finita l’epoca della grande abbuffata sindacal-assistenziale di cattedre, spezzoni, compresenze, progetti che comportavano ampliamento della base lavorativa.

Soffia il vento della crisi, che porta tagli dell’organico, razionalizzazione delle risorse, allungamento dell’età pensionabile e quindi restringimento dei posti disponibili per nuovi incarichi.

Una situazione particolarmente critica è quella dei giovani laureati non abilitati che attendono di sapere quale sarà il loro destino. Si tratterebbe, secondo dati ministeriali relativi a “giovani laureati non abilitati” negli ultimi 5-6 anni, di 129mila non abilitati con almeno 360 giorni d’insegnamento e di 200mila già laureati che fanno supplenze brevi. A questi sono da aggiungere tutti quelli che si sono laureati in materie attinenti all’insegnamento dopo la chiusura delle SSIS e che conservano una attitudine all’insegnamento.

Questo quadro è grave non solo per le incertezze che determina nella vita di molti, ma perché è l’esito del progressivo appannamento del profilo professionale del docente. L’insegnante italiano è poco più che un impiegato e riceve uno stipendio basso perché non è soggetto a nessun vincolo valutativo. Inoltre, il far prevalere il criterio anagrafico su qualunque altro (il punteggio delle graduatorie in realtà è un premio alla gerontocrazia) ha come conseguenza la caduta di una motivazione vocazionale al lavoro formativo ed educativo. Verrebbe da osservare che siamo sull’orlo di una catastrofe sociale, dovuta non tanto al preannuncio di qualche rivolta, quanto piuttosto alla perdita del senso stesso del lavoro.

Una generazione di giovani che perdesse lo slancio e le ragioni originarie, finendo per abbandonare la prospettiva della scuola per altri ripieghi (se ve ne sono), sarebbe veramente il segno che siamo un paese per vecchi, pieno di rughe e incapace di reagire.

Ci interessa tuttavia affermare un modo di guardare la circostanza che non nasce dalle difficoltà, ma da tutte le novità, che fanno sperimentare come la crisi non sia ineluttabile, ma possa essere battuta in breccia e, se non superata, certamente privata di molti dei suoi aculei.

Un fatto significativo è rappresentato dall’azione per cui insegnanti giovani e meno giovani si aiutano a tenere desto il significato della scelta professionale che hanno fatto, a partire da una idea del lavoro nella scuola come espressione di tutta la carica umana personale, che è anche una posizione vocazionale, cioè espressiva dei desideri più profondi.

Si tratta di una corrente nuova fatta di incontri, di momenti di formazione in cui si veicolano esperienze e giudizi, di attività in cui insegnanti esperti mettono le proprie competenze culturali e organizzative a favore di altri insegnanti meno esperti, aiutandoli anche nella ricerca di situazioni lavorative magari non immediatamente corrispondenti alle aspettative, ma non meno reali.

Un esempio sono le reti tra docenti che si sono date il nome di “Botteghe dell’Insegnare”: luoghi in cui qualcuno si prende cura di qualcun altro (anzitutto, il docente più esperto del docente più desideroso di imparare). In questo modo rinasce anche il gusto per una didattica tesa a comunicare una cultura. Mentre le logiche sindacal-politiche tendono a dividere le generazioni, nasce un soggetto unitario portatore di un giudizio e in grado di esprimere anche una pretesa politica. È infatti urgente cogliere l’occasione storica per porre nuove condizioni che facilitino l’accesso dei giovani all’insegnamento, introducendo regole che premiano le capacità e il merito e non solo l’anzianità. In sintesi, ci preme ribadire che vale la pena puntare ancora su una professione che si fa carico di aiutare un popolo a crescere attraverso i suoi bambini e i suoi ragazzi. Vale ancora la pena giocare la partita. Vale ancora la pena insegnare.