Decleva: l’abolizione del valore legale? intervista a Enrico Decleva il Sussidiario 30.1.2012
Enrico Decleva, rettore
dell’Università statale di Milano, commenta le novità contenute nel
Decreto di venerdì per quanto attiene l’università. «L’unica
risposta seria a chi continua a porre il problema dell’abolizione
del valore legale, è quella di mettere il sistema in sicurezza per
quel che riguarda il rispetto dei requisiti che fanno di un percorso
di studio una cosa seria» dice Decleva. Avanti dunque con la
certificazione. Ecco il suo punto di vista su accreditamento,
valutazione, riforma del 3+2, università, giovani e mondo del
lavoro.
Prima di tutto bisognerebbe mettersi
d’accordo sulla «cosa» che si vorrebbe abolire. La questione non è
banale. Come da qualche parte si è già fatto opportunamente notare,
non esiste una norma di legge, cassata la quale il valore legale non
c’è più. E, allora, al di là delle mitologie più o meno
miracolistiche, di che cosa intendiamo parlare? Del fatto che un
medesimo titolo di studio e una medesima votazione possano assumere
una valenza assai diversa a seconda dell’ateneo dove li si sono
conseguiti, e che quindi (ma il passaggio non è proprio scontato)
non li si debba più prendere in considerazione? Di impedire che il
solo conseguimento di un titolo possa automaticamente far fare
carriera nel pubblico impiego (abuso al quale si è peraltro già
posto fine, anche se qualcuno lo richiama come se fosse ancora in
vigore)? O che per l’accesso a molte posizioni, ivi compresa
l’iscrizione a ordini e albi professionali, basti il titolo di primo
livello?
È quindi ragionevole che si sia deciso
di approfondire: vedremo se la discussione, se davvero ci sarà,
porterà a qualcosa. O se sarà l’ennesimo ritorno in auge di un
tormentone ricorrente. Francamente, anche il richiamo all’autorità
di Luigi Einaudi andrebbe contestualizzato, se non altro citandolo
anche là dove scriveva che «Non si mutano d’un colpo tradizioni,
metodo di reclutamento degli insegnanti, metodi di giudizio degli
studenti; e se si fa, d’un tratto, il tentativo, nasce male peggiore
di quello al quale si vorrebbe rimediare». Ma il punto fondamentale
è in ogni caso un altro e su di esso, per fortuna, si è già
cominciato a lavorare.
Sì: l’unica risposta seria a chi continua a porre il problema
dell’abolizione del valore legale, è quella di mettere il sistema –
e preciso: tutto il sistema – in sicurezza per quel che riguarda il
rispetto dei requisiti che fanno di un percorso di studio, quale che
sia la sua eventuale collocazione futura in una graduatoria di
qualità, una cosa seria. Nella situazione italiana, con la storia
che abbiamo alle spalle, questo non può venire che da una
certificazione dell’offerta formativa – chiunque la eroghi: soggetti
pubblici o soggetti privati – fatta da una autorità pubblica
competente e riconosciuta.
No, perché il «pezzo di carta» finale lo vogliono tutti, e avendo la
certezza che lo si possa usare nella vita professionale e di lavoro.
Si tratta piuttosto di garantire che i percorsi di studio valgono
quello che promettono e che sono tenuti a dare in termini di
competenza, coerenza, efficacia. Perché ci sono professori in numero
adeguato, perché per preparazione, impegno, aggiornamento
scientifico, pratica diretta della ricerca, essi sono all’altezza
delle loro responsabilità; perché il ventaglio dei servizi offerti è
adeguato; perché i laureati sono effettivamente preparati... E
perché, conseguentemente, anche il titolo finale significa e vale
qualcosa.
Niente affatto. Gli effetti sul sistema ci saranno e potranno essere
di vario segno. Nella sostanza dipenderanno, in buona misura, dalle
scelte strategiche in materia di alta formazione e di ricerca di
medio e lungo periodo che parallelamente si adotteranno e dalle
risorse che si metteranno a disposizione. Una carenza, una volta
constatata, potrà infatti dar luogo ad esiti opposti: alla chiusura
del corso (e nel caso che se ne chiudano tanti, chiude l’ateneo),
ovvero alla ricerca di rimedi, ottenibili peraltro solo mettendo in
gioco delle risorse. E siccome non è detto che le si abbia (il
meccanismo porterà in effetti a perderne, proprio a causa delle
insufficienze dimostrate), l’unico esito diventerebbe chiudere. Si
può capire che una simile prospettiva spaventi coloro che se ne
sentono più minacciati.
...Ma si può immaginare che di fronte alla prospettiva che una
università, in mancanza dei requisiti richiesti, possa ridurre
drasticamente la propria offerta o addirittura chiudere, non si
determinino interventi di supporto a livello regionale o
territoriale? E interventi che, se ci saranno, non potranno
limitarsi a tenerla aperta alla meno peggio (come è già accaduto e
accade), ma dovranno garantire condizioni di operatività entro gli
standard complessivi del sistema.
Sì, perché tali funzioni non sono quelle di produrre semplicemente
delle classifiche, o di eliminare come se niente fosse soggetti con
una loro storia e un loro insediamento, ma di incentivare qualità e
responsabilità in un contesto competitivo. Speriamo che accada anche
da noi. E che non ci si balocchi con l’idea che contano solo i
soggetti in grado di competere effettivamente con le istituzioni
europee più prestigiose. Questo è un aspetto essenziale,
sicuramente: ma c’è anche un problema di competitività dei singoli
sistemi nazionali con gli altri, rispetto al quale, paradossalmente,
siamo probabilmente meno mal messi di quanto non si pensi. Il peggio
sarebbe voler far servire l’accreditamento come alibi per perpetuare
o addirittura peggiorare le condizioni di sottofinanziamento
complessivo di università e ricerca che ci penalizzano come Paese da
decenni.
Il giudizio da dare è sicuramente positivo. Ovviamente una cosa sono
le norme, una cosa la realtà operativa, ancora tutta da costruire. E
che proprio perché importante, andrà realizzata con particolare
attenzione e senza forzature. Avvalendosi di competenze effettive,
di indicatori ragionevoli e significativi. Ma anche senza troppi
ritardi. Fermo restando il punto di fondo. Un’università che non
ottiene l’accreditamento o lo perde o deve perdere la possibilità di
erogare titoli e chiudere i relativi corsi di studio. Questo
andrebbe forse reso più esplicito.
Il rapporto in questione riconosce che il 3+2 non era in sé
insensato e che ha sofferto semmai di una carenza di governance a
tutti i livelli nella sua applicazione. E questa mi sembra
un’impostazione condivisibile. I dati positivi sui tempi di
conseguimento del titolo di primo livello, sulle origini familiari
dei laureati, sugli abbandoni sono accostati ai dati più negativi
sulle retribuzioni e si dà peso alla diminuzione intervenuta negli
ultimi anni delle immatricolazioni. In generale si ritiene che
l’immissione di un più alto numero di soggetti nel mercato del
lavoro non abbia determinato effetti propulsivi, risentendo in
realtà, come non poteva non essere, delle condizioni generali di
difficoltà e di crisi del Paese.
Ma chi si aspettava dal rapporto, considerata l’autorevolezza e il
peso del soggetto promotore, una ennesima condanna della riforma
Berlinguer è rimasto probabilmente deluso. Che la laurea possa
rendere di meno sul mercato del lavoro – ma rispetto a quando? e in
quali contesti? –, non significa che non rimanga un percorso
privilegiato per accedervi. Anche su questo il rapporto mi sembra
chiaro.
Ho smesso di insegnare da troppi anni, non riuscendo a conciliare il
mestiere di docente con quello di rettore di un grande ateneo, per
poter fare riferimento a esperienze dirette e impressioni personali.
In linea generale, penso che una università debba operare rispetto
ai giovani così come sono, in relazione alle esperienze e alle
realtà che ne hanno condizionato e ne condizionano le attitudini e
la preparazione. E il quadro è sicuramente variegato. La riforma ha
imposto di pretendere di meno in termini di conoscenze da acquisire
in tre anni. Ma questo non giustifica indulgenze che sicuramente si
sono manifestate e che non giovano, in primo luogo, agli
interessati.
Sì. Non esageratamente alta come spesso accadeva ai vecchi tempi (e
qualche volta ancora adesso), ma neanche a pochi centimetri dal
suolo come succede in vari casi. Il fatto è che la didattica
continua ad essere espressione e campo riservato dei singoli
docenti, come è giusto che sia. Ma una maggiore collegialità nella
definizione di obiettivi e standard e dei comportamenti anche
individuali che ne derivano, gioverebbe non poco.
Non sono stato un fanatico della riforma, quando la si è impostata.
Ma ero anche ben convinto che il vecchio sistema, per come era
diventato, non poteva reggere. Purtroppo, pur di far partire il
nuovo sistema, si sono ignorate tutte le condizioni che avrebbero
dovuto essere poste per garantirne un’applicazione ragionevole. Gli
effetti si sono visti, e tanto più in coincidenza con un sistema di
reclutamento fatto apposta per moltiplicare i posti di professore e,
conseguentemente, gli insegnamenti e i corsi di studio. Da un altro
punto di vista continuo a ritenere sbagliata l’idea, all’epoca
centrale e tuttora diffusa, che la laurea triennale sia equiparabile
in toto per il peso della preparazione assicurata – e quindi della
funzionalità rispetto al mercato del lavoro –, alla vecchia laurea
quadriennale. È indicativo che ciò non si sia comunque fatto valere
e non valga per una parte delle professioni. Ma anche nei casi in
cui non sussistono vincoli europei o robuste pressioni nazionali,
come si fa a non riconoscere che il percorso di secondo livello può
offrire gradi ulteriori di preparazione, in primo luogo culturale e
fatta di conoscenze più ancora che di specifiche abilità, utili
anche per i futuri destini professionali e di lavoro?
Infatti. Per non dire di quell’aspetto, centrale anche se non
immediatamente remunerativo, che un’istituzione come l’università
non può ignorare, che è la formazione della persona nel confronto
con i contenuti più aggiornati del sapere. Certo, la laurea
magistrale (allora la si chiamava specialistica) risente
probabilmente ancora del vizio di origine di non essere stata
concepita e programmata in linea con la laurea triennale. Ed è bene
che ogni ateneo ne ripensi le caratteristiche e le funzioni. Il
problema non è in ogni caso quello che abbiamo alle spalle (anche se
è importante darne una valutazione appropriata), ma quello che ci
mettiamo nelle condizioni di fare per affrontare le questioni che
abbiamo davanti: evitando rimpianti che non hanno ragion d’essere.
Tanto, indietro non si torna.
Mi pare che in questa impostazione si faccia riferimento a una sorta
di ideale mercato del lavoro, i cui flussi possano essere regolati
in anticipo sulla base di criteri che non tengono però conto di
altri elementi da cui sembra inopportuno prescindere. Il fatto è che
dove c’è domanda effettiva di laureati, lo stacco numerico tra primo
e secondo livello c’è già. Nella gran parte dei casi, i laureati e
le loro famiglie preferiscono invece garantirsi con un secondo
titolo sperando che ne vengano maggiori opportunità in un contesto
difficile come l’attuale. Quali che siano le motivazioni che
spingono oltre la metà dei laureati di primo livello a iscriversi ai
percorsi di secondo livello, resta da chiarire che cosa quest’ultimo
offre effettivamente e a quali condizioni. Ma non presupponendo
limitazioni numeriche a priori. O introducendo elementi di
colpevolizzazione perché ciò accade. Come se le università si
preoccupassero solo di mantenere il più alto livello di utenza. La mia impressione è che le imprese, quelle di una certa dimensioni, per le quali il problema si pone, attuino già, nelle loro selezioni di personale, una sorta di accreditamento, dando un diverso peso agli atenei di provenienza. Nella scelta concreta, se assumere o no, entrano in ogni caso fattori diversi. E, una volta effettuata l’assunzione, i criteri di carriera sono tutti aziendali. Di qui, anche di qui, la netta preferenza per il laureato triennale: la formazione ulteriore, per quel che interessa, la farà in azienda. Ma ribadisco che sta anche alle università dimostrare che i due anni di laurea magistrale conferiscono un di più effettivo di preparazione e competenza. Per non dire dei dottorati di ricerca. Ma fermiamoci qui. |