Perchè cancellare di Pietro Manzin La Voce.info 27.1.2012 Il valore legale del titolo di studio fa sì che ogni laurea conferita da una qualsiasi delle ottanta università italiane abbia lo stesso peso nel mercato degli impieghi pubblici. Così gli atenei hanno scarsi incentivi a scegliere docenti preparati; i laureati bravi sono intercettati dal settore privato; le risorse delle famiglie premiano i servizi formativi scadenti. Problemi che si potrebbero superare se l'amministrazione pubblica valutasse le lauree sulla base di un ranking delle università di provenienza dei candidati. Come vorrebbe una proposta in discussione nel governo. Nel governo Monti si sta discutendo una riforma dell’università che potrebbe avere effetti assai più rilevanti di tutte quelle succedutesi negli ultimi venti anni. Quattro sarebbero le questioni in discussione: - eliminazione del vincolo del tipo di studio per l’accesso ai concorsi pubblici - eliminazione del valore del voto di laurea nei concorsi pubblici - valutazione differenziata della laurea a seconda della qualità della facoltà/università di provenienza - eliminazione o riduzione del peso della laurea nei concorsi pubblici
La prima proposta è positiva perché ammettere ai concorsi per la dirigenza pubblica lauree in storia, o arte o lettere, eccetera, accanto alle tradizionali di giurisprudenza, scienze politiche o economia consente di immettere saperi utili e diversificati che arricchirebbero il sistema pubblico. La riforma però non potrebbe coinvolgere l’accesso a professioni per le quali uno specifico sapere tecnico è imprescindibile, come ad esempio quelle di ingegnere, medico o avvocato, che richiedono lauree non fungibili con altre. La seconda, diretta ad eliminare il valore del voto di laurea nei concorsi pubblici, non convince interamente. Per un verso, curerebbe il vizio di alcuni atenei o facoltà di valutare generosamente i propri studenti, “regalando” voti alti e lodi non corrispondenti alla effettiva preparazione. Tuttavia, l’eliminazione del valore del voto rischia di disincentivare gli studenti a migliorare la loro preparazione: se non c’è differenza tra 90/110 e 110/110 perché sforzarsi di raggiungere l’eccellenza? E cancella un dato, forse non sempre preciso, ma utile per il possibile datore di lavoro: una laurea presa con 90/110 e una con 110/110 segnalano una differenza netta di preparazione degli studenti interessati, in qualunque università.
La terza proposta, che
consiste nel “pesare” in maniera diversa le lauree a seconda
dell’università/facoltà di provenienza, è quella che promette i
mutamenti più radicali e positivi. Oggi, in base al valore legale del titolo di studio, ogni laurea conferita da una qualsiasi delle circa ottanta università italiane ha lo stesso peso nel mercato degli impieghi pubblici: un giovane laureato in medicina in un’università che gli ha insegnato poco o nulla “vale”, per un possibile datore di lavoro pubblico, esattamente quanto un giovane medico laureato in un’università severa che lo ha ben preparato alla professione. Una Asl che volesse giudicare i due giovani dottori ai fini dell’assunzione non potrebbe privilegiare la laurea formativa a discapito di quella scadente. Dovrebbe trattare i due come se avessero lo stessa identica formazione e lo stesso sapere. Questa ingessatura del mercato ha almeno tre effetti gravemente negativi. 1) Le università hanno scarsi incentivi a scegliere docenti bravi e ricercatori impegnati. Sia che la lezione la tenga il figlio/a o l’amico/a del barone locale, sia che la tenga un futuro premio Nobel, la laurea vale sempre lo stesso. Perché dunque cercare di reclutare il futuro premio Nobel? 2) Mentre il settore pubblico non può distinguere tra lauree, quello privato lo può fare, almeno in parte, basandosi sui diversi ranking oggi disponibili. Ciò implica che, ad esempio, la clinica privata, diversamente dalla Asl, può scegliere di assumere un dottore che viene da un’ottima facoltà di medicina, scartando liberamente quello che viene da una facoltà non selettiva, anche se ha un voto di laurea più alto. In tal modo, si innesta un meccanismo perverso per cui i laureati bravi sono intercettati dal settore privato, mentre quelli scadenti sono lasciati al pubblico. 3) Dato che ogni laurea, ovunque ottenuta, vale lo stesso sul mercato (almeno su quello pubblico), molte famiglie non selezionano le università in base alla loro qualità, anzi sono tentate di iscrivere i loro ragazzi dove i corsi sono più facili e voti dati con più generosità. Questo significa che le risorse private ‘premiano’ i servizi formativi scadenti invece che quelli di valore. Come si potrebbero pesare in modo diverso le lauree? Stabilita una graduatoria di atenei riconosciuta, ad esempio quella dell’Anvur, l’amministrazione che cerca un laureato deve valutare in maniera diversa le lauree a seconda del ranking dell’università di provenienza dei candidati. L’Asl che bandisce un concorso attribuirà allora un certo punteggio (ad esempio, 100) alla laurea dell’università/facoltà X, prima nel ranking di riferimento, e un punteggio inferiore (ad esempio, 90) alla laurea dell’università/facoltà Y, seconda nello stesso ranking, e così via a scalare. La regola dovrebbe essere la più semplice e meno burocratica possibile. Ogni amministrazione dovrebbe poter attribuire a ciascuna università/facoltà il punteggio che vuole; si chiede semplicemente di rispettare la posizione del ranking e dunque chi precede deve necessariamente avere un punteggio superiore di chi segue. Il “peso” dell’università diverrebbe così uno tra gli elementi da prendere in considerazione nella valutazione dei candidati, insieme al voto di laurea conseguito (e alla prova di ammissione/idoneità). Nell’ottica della riduzione al minimo delle regole burocratiche, l’amministrazione che bandisce il posto dovrebbe avere sempre la libertà di scegliere in quale misura tener conto del fattore costituito dal ranking dell’università di provenienza, di quello del voto di laurea, o di quello all’esame di ammissione (o altro). Ma, quale che sia il peso che l’amministrazione vorrà attribuirgli, il ranking dell’università inciderebbe comunque in senso positivo sulla correttezza e precisione della valutazione complessiva dei candidati. Peraltro, questa soluzione non implica la perdita di valore della fissazione dei requisiti ministeriali necessari alle Università per l’attribuzione di una laurea. Infatti, tutte le Università del ranking Anvur continuerebbero ad essere legittimate ad emettere un titolo di studio valido per l’accesso alle professioni e ai concorsi. Semplicemente questo titolo di studio avrebbe un peso differenziato a seconda dalle qualità (della ricerca e della didattica) dell’Università. Questa soluzione permetterebbe, se non di eliminare, di ridurre fortemente tutti gli effetti negativi indicati sopra: a) segnalerebbe alle famiglie, in maniera immediata e facilmente comprensibile, che l’iscrizione presso una università/facoltà seria e selettiva è un investimento pagante in termini di futura occupazione dei figli, mentre (iscriversi a una università scadente penalizzerebbe il figlio in maniera sistematica in tutti i concorsi pubblici e nelle assunzioni private); b) fornirebbe informazioni precise ai datori di lavoro, sia pubblici che privati, sull’effettiva preparazione dei giovani che intendono assumere, in base all’università di provenienza; c) indurrebbe le università a cercare di migliorare i loro servizi formativi e la ricerca, in modo da ottenere una posizione migliore nel ranking (e dunque maggiori risorse dalle famiglie); d) indirizzerebbe il flusso delle risorse privato (famiglie) verso le università di qualità invece che verso quelle scadenti, ottimizzando l’allocazione delle stesse. Anche la quarta proposta, vale a dire l’eliminazione o la riduzione del peso della laurea nei concorsi pubblici, è diretta a ridurre i suddetti effetti negativi. Se la laurea non ha valore nella valutazione dei candidati nei concorsi pubblici, tutto quello che conta è la loro preparazione per la prova di accesso. Ciò dovrebbe indurre gli studenti a iscriversi nelle Università/facoltà migliori e spingere le Università/facoltà a migliorare la qualità dei loro servizi per attrarre iscrizioni. Tuttavia, rispetto alla differenziazione del peso del titolo, questa proposta soffre di due debolezze. Per un verso, gli incentivi positivi sono meno certi e trasparenti: agli occhi degli studenti e delle loro famiglie, una cosa è promettere una migliore preparazione, altra è assicurare un punteggio superiore in tutti i concorsi pubblici. Per l’altro, la soluzione confina tutto il peso della valutazione dei candidati sulla prova di accesso, con il rischio di ottenere risultati molto casuali; diversamente, mantenere un certo spazio alla ponderazione degli esiti del percorso accademico consente di tenere in considerazione le prove condotte su un arco di tempo lungo e da docenti diversi, e produce pertanto risultati più precisi. |